Ero in prima elementare quando ho capito che io e la matematica avremmo avuto un rapporto difficile. Dovevo imparare le tabelline e mi dicevano che era un gioco da ragazzi, bastava memorizzarle, come le poesie o come le preghiere. Solo che quelle non erano parole, io i numeri riuscivo a malapena a leggerli.
Quando ho capito di essere discalculica, avevo già passato un quarto della mia vita ad invertire i numeri, dimenticare gli zeri, sbagliare a prenotare le date degli hotel e persino i voli. 
La cosa che ancora oggi reputo straordinaria era il mio modo di risolvere le equazioni: mirabolanti voli pindarici che riempivano pagine intere ed avevano come risultato una sfilza di numeri e virgole, lontane anni luce dalla risposta reale. Da questo si poteva già capire la mia predisposizione a trovare dei piani B in qualsiasi cosa, specialmente davanti ad un ostacolo che la mia testa non riesce ad elaborare. Così, ho imparato ad ascoltare più l’istinto che la razionalità, fidandomi sempre di quello che sentivo più di quello che realmente vedevo. Un pensiero decisamente stupido per chi non crede nell’esistenza dell’oltre.  
Non lo nego, a volte può essere pericoloso, altre è soltanto liberatorio. Molte altre è la sola cosa che possiamo fare per resistere quaggiù. 

Oggi – 14 febbraio 2022 – sono passati esattamente dieci anni da quando ho scritto il primo post su questo blog. È cominciato come un gioco e poi alla fine è diventato un taccuino pieno di appunti sparsi sull’esistenza che scorre senza sosta e non ti guarda in faccia mai, a parte rari casi in cui ti senti allineata con il progetto che l’Universo ha per te.
Da buona discalculica, posso facilmente leggere il numero 10 come 01. Uno zero come tutto l’uragano che mi ha portato fino a qui e zero uno come il primo capitolo, come partire dall’inizio, punto e a capo, come essere arrivati ad un certo limite e voler mandare tutto a quel paese per ricominciare. 
Non c’è un istante in questi dieci anni in cui non mi sono chiesta: il ciclismo è stato il mio più grande amore o solamente una gigantesca ferita aperta che non smette di sanguinare? Probabilmente la risposta sarebbe persino più lunga ed incomprensibile delle equazioni risolte con il metodo Miriam. 
Lo so cosa state pensando – e sinceramente lo penso anche io – ma allora che cosa ci fai ancora qui?

Poi però ripenso alla meraviglia improvvisa dell’arcobaleno sulle montagne francesi dopo dodici chilometri a piedi sotto il temporale, la foresta di Arenberg dietro i tergicristalli mentre la radio trasmette Alice Cooper. Mi rivedo mentre canto sulla via delle canzoni di Sanremo, in una miracolosa giornata di primavera, risento il silenzio solitario di una mattina alla cappellina del Geraardsbergen e trenta euro che scivolano nella cassetta delle offerte per accendere una candela. Percepisco ancora il boato nello stomaco dell’ultimo giro nel velodromo di Roubaix, l’odore della birra del tipo vestito da elefante rosa che mi casca addosso a Oudenaarde, il sapore delle mie prime frites sul Kwaremont. E poi mi sembra di rivivere le sere afose a Malaga a mettere il navigatore per cercare l’hotel, Anversa e la sua notte, così lontano dalla pandemia, con la musica dance fino nelle viscere.
Come una ninnananna, mi sembra di essere ancora in piazza a Bruxelles, una settimana prima di Natale, a guardare le facciate dei palazzi illuminati come in una favola. Di nuovo sento il gomito in faccia a Piazza del Campo, il ricordo struggente di cose che non torneranno.

E’ così il ciclismo, l’amore e il dolore non si possono dividere. Uno non può stare senza l’altro. Vince chi sa soffrire di più, chi può superare il limite, ogni volta e ancora la prossima.

Se fossi sana di mente e potessi parlare ora alla Miriam di dieci anni fa, le direi sicuramente di scappare a gambe levate. Di darsi al giardinaggio, di provare a fare la commessa, di tentare la fortuna in Australia, che ne so. Ma sana di mente non lo sono stata mai, quindi le direi di prepararsi a seguire il disegno contorto del destino, a diventare grande, a piangere molto per conoscere piccoli istanti di estasi, ad innamorarsi ogni volta di uno scatto improvviso sulle pendenze più dure, come se fosse la prima. Naturalmente le direi anche di fidarsi di sé stessa, di continuare a scrivere tutto quello che vede e soprattutto di non lasciare che niente la porti lontana dalle sue strane equazioni sulla realtà. Perché quelli non sono castelli in aria – come credevano tutti – ma uno dei tentativi meglio riusciti di avvicinarsi al nucleo più intimo delle cose. 
D’altronde, come diceva Céline, “la vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.” 

 

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

Una risposta a "Uno zero, zero uno"

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