Dimmi che cosa ti fa urlare ancora a piena gola,
ti fa stare appeso a un filo
I Ministri
Le nuvole di fumo si alzano dalle griglie, nebbia contro il sole, cornice alla foresta che stamattina è solo un bosco di alberi alti con una strada infinita e c’è l’odore della terra a primavera. Fa caldo, la gente è in maniche corte, un pellegrinaggio di persone che si porta sottobraccio quelle seggioline pieghevoli che aveva anche mio nonno, con cui stava la sera a guardare fuori da casa. Mi viene da piangere, un po’ perché la signora francese mi ha messo troppa mostarda nel panino e un po’ perché penso a tutte le volte che ho guardato Arenberg da Google come la peggiore delle stalker, a tutte le volte che mi hanno detto quanto sia difficile fare i settori, seguire questa corsa che è come niente altro al mondo. Beh, ci sto camminando sopra e sento gli uccellini che svolazzano sopra la mia testa nell’intrico dei rami spogli e magri che si allungano verso il sole e i primi ubriachi – sono le undici – saltano di qua e di là dal fosso per benedire l’albero dell’amicizia, come antichi druidi dei boschi.
Io aspetto questo benedetto passaggio da una vita. Qui, proprio qui, in questa strada che attraversa la foresta come una cicatrice, come un taglio netto verso l’infinito, di qua il mondo e di là un altro. Sottosopra. Voglio capire se veramente questa è una magia o è solo qualcosa che si sono inventati, indorando la verità come è abituata a fare la gente. Per la prima volta in sei anni di corse ho uno sgabello per cambiare prospettiva. Ma non so se il ciclismo sia bastardo senza ragione o forse solo un buon insegnante un po’ troppo duro, infatti anche salendo sullo sgabello ci sono venti ragazzi con i piedi sulle transenne e io vedo solo le loro teste.
Ok, Miriam. La tua prospettiva è ok. Non ti serve uno sgabello, non ti serve niente per sentire le sirene e l’elicottero e la gente che si sporge ad angolo retto per vedere, vedere là in fondo. Non c’entra la mostarda nel panino adesso. E’ il fiume naturale di Arenberg nera di carbone in una giornata di sole, strana bestia mitologica con la schiena di pavé largo e sconnesso e asciutto che nuota nel fango. E’ l’ultimo pezzo prima dell’asfalto dove ti sembra di essere stato in un pogo feroce e non sai neanche dove ti trovi. Gli ultimi mi sembrano i primi: devastati, con gli occhi cerchiati di nero dalla terra venuta su da chissà dove, con le mani aggrappate al manubrio come al fucile per una guerra. Passo tra la gente per raggiungere la macchina, le transenne scorrono come da un finestrino, dall’altra parte arrivano ancora, la gente e i ciclisti, i ciclisti e la gente e c’è questo sole che sembra estate. L’inferno nel paradiso.
Ward guida esattamente come dovrebbe guidare uno su un’ammiraglia in corsa. Per fortuna che c’è lui che zigzaga tra le persone e le macchine e suona come farebbe un italiano il nanosecondo dopo che esce il verde al semaforo. In realtà è nato in Belgio, in un paesino vicino a Kortrijk ed è un tifoso di Daniel Oss, così tanto che si è fatto mettere il selfie con lui sulla carta di credito della banca. Per dare l’idea.
A Roubaix ci dice di salire sulla collina dietro il velodromo e sembra di risalire una specie di formicaio, dove senti le formiche brulicare la sotto come pazze: eccole, tutte attorno a quell’anello cerchiato di azzurro a guardare il maxischermo, un imbuto, un’arena, così strana da vedere in uno sport senza stadi. Ward sposta una transenna, è uno di noi. E’ solo un velodromo ma succede come ogni luogo che il ciclismo ha scelto: diventa un simbolo, un tempio, un totem. Guardo la coppia che è rimasta al comando. Sagan e Dillier. Silvan sta correndo senza guantini e io penso a quando l’avevo visto per la prima volta mentre faceva i rulli in silenzio, ad occhi chiusi, senza calzini. Forse non le sente neanche le mani in questo momento, forse il dolore arriverà dopo come una specie di valanga. E’ una cronometro anche questa, in fondo, dove niente altro conta a parte fregare il tempo. Fregare Sagan è più difficile, quasi impossibile. Ma non so cosa resta davvero alla fine, quando l’ultimo giro di anello sembra una lavatrice, un rave, un tuono. Quando tutti gridano, si sbracciano e quello sembra veramente il centro del mondo per un istante, quell’istante della volata che sembra di sentirlo fin quassù. Il boato del velodromo che ti viene incontro come un uragano. Maledizione, ancora il mio cuore ce l’hai in pugno, sento che batte in una morsa, sento davvero che questa corsa è come tutte le cose fuori dalle logiche: bellissima.
Dal finestrino dell’aereo, il sole al tramonto mette chiazze dorate sul mare immenso appena al largo da Barcellona. Il cielo di mezza Europa per tornare a casa e quelle nuvole diritte che lo dividono dal giorno alla notte. Così il ciclismo, così la vita. La felicità e la tristezza troncate di netto e poi mischiate e poi lì a guardarsi, dicendosi in silenzio che dobbiamo solo cercare di fare tutto intensamente, perché quello che amiamo è tutto quello che abbiamo, nessun giorno deve andare perso. Il panino è vuoto, sopra Milano piove e anche sotto, il pavimento dell’Alcatraz appiccica di birra rovesciata come ad un ciclocross qualunque, mi viene da chiudere gli occhi come una ninnananna di una giornata dolcissima e tragica.
Dimmi cos’hai capito della felicità.
Le luci del palco assomigliano alla fine di Arenberg nei giorni di pioggia senza voce, bianco come l’infinito, buio se chiudi gli occhi e non pensi a niente, al mare dall’alto, alla chitarra in mezzo al rumore, al sudore che cola giù per la schiena.
Dimmi che cosa preghi
Dimmi che cosa canterai.
L’ albero dell’amicizia ?
😉