Il vento è caldo e pettina le campagne così verdi nel sole del tardo pomeriggio. Ho la sensazione di essere stata catapultata qui da una navicella in una galassia lontana. Penso che qui, esattamente qui, volevo starci da anni e adesso mi sembra una cosa normale. Succede sempre. Certe volte pensiamo che le cose siano più grandi di noi, che i chilometri o chissà cos’altro possano dividerci da dove vogliamo andare davvero. Beh, è una cazzata. Una scusa che ci raccontiamo ogni santo giorno. E’ così.
E’ caldo il vento, porta un po’ l’odore della terra asciutta sul pavé. Carrefour de L’Arbre. Una bambina ci corre sopra con un vestitino rosa e un paio di sandali – ma come fa? – e le biciclette passano, tagliando la campagna, tagliando la strada dove c’è una freccia gialla che dice: Parigi-Roubaix. Uno degli ultimi tratti, forse l’ultimo per eccellenza. Dove tutto può andare bene e tutto può andare male. Maledetta linea di confine, una cosa a cui nessuno ci fa caso. Un pezzo di strada che può benedirti o maledirti per sempre, tocca a te stare in piedi. Come nella vita in fondo, nessuno ti dice come devi fare per sopravvivere, per arrivare intero.
E’ successo a Zdenek Stybar, quando nessuno sapeva chi fosse o quasi. Una transenna toccata per sbaglio e ciao, addio tutto. Basta così poco che quasi non sembra vero. Veniva dal ciclocross, era una macchina da sterrato, da fango, un caterpillar.
Me lo ricordo come se fossi stata lì, e forse è in quel momento che è cominciato tutto. Penso a un’altra transenna toccata per sbaglio. A un altro viaggio. A tutti i viaggi che ho fatto per essere qui, come se adesso gli spiriti parlassero in questa lingua del vento, come se fossero quella freccia diritta che segue l’orizzonte diritto delle campagne. Paris-Roubaix. Nessuno riuscirebbe a credere che questo lo chiamano inferno.
C’è un vuoto tra un sasso e l’altro, sono così diversi da quelli dei muur, sono larghi e alti, formano delle schiene che fa male a passarci sopra con le scarpe, come dossi in mezzo ai campi. Strade per i contadini, per i trattori, no di certo per i ciclisti. Eppure è unica per questo, il fatto che sembri totalmente impossibile e fuori dalle logiche.
Sono così lisce le pietre, il sole si riflette come uno specchio. Sì, lo sai che con la pioggia diventano lisce e cattive e scivolose bastarde ma adesso, a quest’ora, così luccicanti sembrano una freccia magica nel vento, una strada per non perdersi con l’accordo di fare una fatica disumana. Ma non perdersi, quello sì, neanche se tutto sembra più difficile del previsto.
Frecce di sole, strisce sui muri di pietra delle docce dove stanno tutti i vincitori della corsa. Tutti su targhette di metallo. Sono docce, niente di più, niente di meno. C’è il profumo del sapone e l’alone di quello che è rimasto lì attorno per anni, di chi lì dentro ci ha pianto i sogni, ha imprecato in silenzio. E ora che questo silenzio lo posso sentire sembra che sia tutto così naturale, come se questo rito fosse davvero una poesia di poche parole, dirette e senza mezzi termini, come sa essere il ciclismo ogni volta, tutte le volte.
Il sole diventa pallido e dorato sull’orizzonte, le macchine luccicano come le schiene di pavé al tramonto.
Ho bisogno di una birra.