A un soffio, nella canalina a fianco della transenna come equilibristi, tutta la polvere negli occhi che si alza in nuvole come segnali di fumo da un luogo sacro a un altro luogo sacro. La schiena del muro è asciutta, taglia in due il fango della campagna che la pioggia ha impastato la scorsa notte e questa mattina. Il signore di fianco a me parla un inglese con il duro accento fiammingo, anche lui taglia le parole come questa corsa taglia l’anima. Dice che è pericoloso e ha ragione. I tifosi sono così vicino, due centimetri tra loro e i corridori, uno spazio che è come una vena che passa tra due organi. Il rumore che fanno le biciclette sul Kwaremont è come quando batti i denti per il freddo, un tamburo, un trita ossa che poi, alla fine, è quello che è. Passano incredibilmente volando e soffrendo, sparsi come costellazioni nel vento che frusta uno dei muri leggendari di qui, un rave sperduto nella campagna dove le strade sono tutte strette e a volte scorrono lungo fossi profondi come pozzi di cui non vedi la fine, vegliate agli incroci da case che sembrano disabitate o che ti fanno pensare a un’esistenza tranquilla passata a guardare il crepuscolo da una finestra mentre si fa buio attorno e c’è profumo di torta nella stanza. Certo è strano farle al ritmo di un milanese in ritardo, pensando a cosa dire ai posti di blocco senza perdere la calma, specialmente quando sei arrivata dalla strada opposta e non sai dove andare per ribeccare quella giusta. C’è odore di ketchup sulle frites calde, affondo con le scarpe nel fango, affondo la forchettina di legno e risento in bocca uno dei primi sapori che ho amato. In fondo l’importante è arrivare in tempo, avere la transenna e – pazienza – i ragazzi ubriachi che ti chiedono di fargli una foto che non avranno mai.

oude kwaremont fiandre

Sventolano le bandiere gialle, furiose come il loro leone nero e rampante, il vento porta le nuvole, nere anche loro, e poi le porta via. D’improvviso esce il sole, i vecchi pedalano in mezzo alle campagne per stradine invisibili per arrivare su in cima. Tutti hanno la birra in mano, aspettano i passaggi, altri passaggi, fino a sera, fino a quando l’ultimo sarà per l’ultima battaglia. Noi scendiamo e un gruppetto di italiani ci chiede se possono rubarci due patatine. Hanno l’accento veneto, uno è Bruseghin. Mi fermo e lascio che le prendano, in fondo siamo una famiglia e oggi è festa, si condivide il cibo e si sta insieme come se ci si conoscesse da sempre lungo questo serpentone che si snoda tra la partenza e l’arrivo. Come il collegamento che c’è tra cervello e cuore: in mezzo un casino che non si può dire, ecco.

Ripenso a stamattina e a quella precisa sensazione di essere seduti a una immensa tavola a parlare in cento lingue diverse di una sola cosa. Amore, probabilmente. E di quanto fa freddo e le lacrime bruciano un po’ gli occhi mentre la piazza sventola i cappellini a ritmo per l’arrivo di Gilbert. E’ commosso anche lui ma i ciclisti non lo danno a vedere, almeno non quando lo possono controllare. Resti senza parole, cosa ci vuoi fare, è solo una marea umana con i cappellini gialli e le bandiere gialle che si arrampica ovunque, pure su quel pilastro privilegiato che è la statua del soldato romano che uccise il gigante, la ribellione di una terra ribelle, appassionata nella sua quiete.

La gente batte le mani contro le transenne, tamburi del rito che sta per giungere al termine, il tum tum magico di quando mancano tre chilometri e forse anche meno. Arriva a sinistra, le mani si alzano come una tenda, come una ola. Si accorgono che è Niki, impazziscono, gridano, si sporgono, lo guardano laggiù, a cento metri che sembrano mille. Poi arriva un Pedersen che nessuno si aspettava – non importa – ancora le mani scuotono le transenne per fare rumore, ancora più rumore. Non ti voltare, sono indietro, non ti voltare.

fiandre pedersen arrivo

Mi cade letteralmente addosso uno e mi sfiora pericolosamente la faccia con un bicchiere di birra pieno fino all’orlo. Lui è vestito da cane di Heidi credo, l’altro da elefante rosa della Tremens – nessun bambino avrebbe saputo fare di meglio nel suo miglior carnevale – vogliono un selfie e boh, lo scatto e ho il telefono che appiccica di non so cosa. Altri arrivano a gruppi, corro verso l’imbuto della gente che va ai pullman, fiume umano che calpesta quello che resta della festa. L’uomo-banana salta in mezzo alla folla, ha in mano un bicchiere di birra come uno scettro o come uno di quei braccialetti luminosi che ti danno ai concerti. Corro. La gente si ferma a guardare dalle fessure non coperte delle griglie, i ciclisti sciamano verso le docce con le facce scavate dalla fatica, dalla cattiveria dei muur in un giorno di primavera.
Corro. Sento il battito, lo sento che mi sale alla testa. C’è l’odore di frittura, di waffles caldi, di alcol sull’asfalto. Sulle transenne, nelle costole, nelle gambe, sento ancora il battito, là fuori e qui dentro.
Corro.

Posted by:Miriam

Sono nata in Brianza in una calda notte di luglio. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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