Qui la realtà si fonde con il sogno, e i sogni irrompono nel reale
William S. Burroughs
Scorro il feed di Instagram, mi fermo un attimo a guardare una foto in bianco e nero, una specie di cartolina. L’ho vista molte altre volte. C’è William Burroughs in primo piano, sdraiato a faccia in giù sulla spiaggia di Tangeri, vestito con scarpe e calzini, che pensa beatamente ai fatti suoi. La fisso per qualche minuto e ripenso a quando facevo la baby sitter e leggevo “Pasto Nudo” nelle sale d’aspetto.
Questo strano libro dalla copertina noiosa – un classico delle edizioni Adelphi – me lo aveva consigliato un amico. Per aprire la mente, mi aveva detto. Ma era talmente osceno, perverso e scioccante da sentirmi totalmente imbarazzata dal fatto che le madri al mio fianco potessero intercettare anche solo una riga di quello che c’era scritto sulle pagine. Una serie di scene sconnesse di impiccagioni, castrazioni, orrori di ogni genere sullo sfondo di un’umanità marcia, condizionata mentalmente, totalmente priva di morale, spinta ad agire contro la propria volontà. Un impasto apparentemente senza direzione che probabilmente, lì per lì, non sembrava avere senso.
Ma i libri sono creature imprevedibili, tornano quando meno te l’aspetti.
Burroughs ha scritto Naked Lunch su fogli sparsi e disordinati, durante il suo soggiorno a Tangeri. Nel 1953 aveva lasciato il Messico per fuggire da uno stato d’ansia che l’avrebbe perseguitato per tutta la vita e il Marocco allora era un punto franco, di tutti e di nessuno.
La prima volta che mi sono sentita così vicina all’altro continente è stato durante la Vuelta del 2018. Era una strana mattina andalusa, naturalmente caldissima, come se il respiro della costa africana fosse a due passi, in una specie di gemellaggio. Rivedo l’autostrada in mezzo alle colline bruciate dal sole, i paesi bianchi come un sogno nel bel mezzo della siesta e il cartello che dice “Tangeri”, a solo una corsa di nave da lì. Burroughs era convinto che laggiù avrebbe trovato la pace. E poi la libertà da tutte le convenzioni sociali e il coraggio di vomitare tutte le sue ossessioni senza che nessuno ci facesse caso.
La seconda volta che ci ho pensato è stata la mattina prima di una Roubaix, a colazione. Ero con le mie amiche in una specie di bar nel quartiere marocchino vicino al velodromo. Aveva i tavoli come quelli di un diner americano e in vetrina c’erano dei dolci stomachevoli al doppio strato di panna. Ma poi è arrivato il tè con grandi foglie di menta e il miele che strabordava persino dalla tazza: trasparente, fumante. Un’usanza che gli immigrati hanno portato da Tangeri. Mi sembra di sentirlo ancora adesso, il profumo intenso e il miele appiccicato sulle dita, le papille ustionate dall’ansia di bere tutto subito. Un po’ come succede con il ciclismo. Poi però ti brucia per anni, non giorni.
E infine c’è stata quella sera in periferia a Bruxelles, a guardare il tramonto da un terrazzo di legno affacciato su cento cortili e altrettanti tetti della città, mischiando due pacchetti di patatine e un antibiotico. Piccola Agrabah del mio cuore dove mi sono sentita un’adulta per la prima volta, dove mi sono addormentata pensando di essere lì per uno scopo. La gente brulicava là sotto, proprio come quando c’era la luna alta e rotonda sopra Malaga, il gelato ti colava fino al gomito per il caldo africano e i vecchi ti guardavano bonari dai loro chioschi di mandorle salate.
Quando il turbinio si placa, sai esattamente cosa ti mancherà.
Il feed si aggiorna, la cartolina non c’è più. Metto via il telefono, come altre volte vorrei lanciarlo dalla finestra. Ora che viviamo in una specie di romanzo distopico, mi chiedo se mai possa esistere ancora una Tangeri dove sentirsi liberi. Adesso vorrei sdraiarmi al sole accanto a Burroughs ad aspettare che dodici mesi volino via per sempre e chiedergli – come già aveva fatto Kerouac in passato – dove mai ci porterà tutta questa merda. Questo solo per sentirmi dire dalla sua stessa voce profetica: “Semplicemente ci tirerà fuori dalla merda. Sul serio.”