A Sanremo, lungo la via del Teatro Ariston, c’è una specie di Walk of Fame con le canzoni che hanno vinto il festival. Adoro questi giochi. Le cerco tutte, come ho fatto in un giorno di pioggia, sull’ultimo tratto di pavé di Roubaix, quello prima del Velodromo. Mi fermo su “Portami a ballare”, io manco l’ho mai sentita perché – diciamocelo – non è che abbia questa gran cultura in merito. Sanremo 1992. Mi piace il titolo, completamente a caso come molte altre cose. Poco più in là un gruppo di ragazzi sta in piedi sopra una mattonella di una canzone e la canta a squarciagola: tutta la via così, un ritornello per ogni mattonella. Sarà una valanga di tempo che non mi sento in questo modo. Spensierata. I ragazzi cantano, la gente gli passa a fianco e per un istante è allegra davvero. Non può essere solo il miracolo di una giornata di sole.
Nei vicoli scuri i piccioni volano e sembrano colombi nel cielo azzurro senza virgole di nessuna nuvola, si sente odore di fritto, di focaccia, di bomboloni come se fosse estate e i catamarani spezzano l’orizzonte del mare là in fondo.
Via Roma è sempre più stretta, per metà nell’ombra e per metà nella luce, come è sempre stato questo sport per me, come sono tagliate a metà le figure dei corridori sulla Cipressa e poi sul Poggio: le vedo male, con il riflesso del sole sullo schermo e le solite venti teste di giornalisti davanti. Ma Julian lo puoi riconoscere anche ad occhi chiusi. Per come sale, per come sembra che qualcuno lo tenga al guinzaglio appena prima di scioglierlo, perché lui lo sa quando deve scattare, lui sa perfettamente quando dovrà farlo. Ma Dio, se la vuole questa corsa. Ed è in quel momento che penso alla lucidità di gestire la potenza, una cosa che ho sempre amato nei finisseur, una cosa che nel ciclismo è un po’ una benedizione. Poi non riesco a vedere più niente, lo speaker dice Alaphilippe e io lo so che in quel momento succede il finimondo. Lui piange e gli altri imprecano, si incastrano con i fotografi, le moto, la gente e chissà cos’altro. E’ sempre più stretta Via Roma che si mangia tutto in un secondo. Sanremo 1992. Non può essere solo un caso.
L’orizzonte si perde, il mare e il cielo diventano la stessa cosa mentre una barca persa nel nulla manda una luce a intermittenza come una specie di codice morse. Guardo sopra le colline quasi scure dell’entroterra: sembra ci sia una stella cadente fissa per i desideri. Qualcuno direbbe che è soltanto la scia di condensazione di un aereo ma io sono veramente stanca della gente che ti spezza l’incanto delle cose. Voglio continuare a immaginare un corridore che scatta e vederlo ancora prima che con gli occhi, sentire la potenza dalle urla di quelli che stanno alle transenne, ascoltare tutto quello che una vittoria non dice, capire il silenzio sopra il rumore. E riuscire a chiudere in un cassetto quello che mi ha fatto sentire nessuno.
Mentre torno a casa, canto.
Ecco…è già una buona domenica