Passa un rettangolo di luce bianca dall’unico rettangolo di tenda che mi sono dimenticata di oscurare. Io alla mattina non mi alzerei mai. Ci sono spesso mattine in cui analizzo lucidamente la differenza tra il vivere e morire. Io alle mattine non perdono niente. Ripenso a quello che mi ha detto un amico la sera prima: “Stai facendo il giro dell’orologio”.
Svegliandomi alle quattro e mezza e andando a letto alle due e mezza, non tecnicamente ma quasi. Non so se il problema sia l’addormentarsi o proprio il dormire stesso. Come se il sonno spezzasse il ritmo delle cose, come se ne avessimo bisogno e allo stesso tempo ci rompesse in due, come il tic-tac sordo delle lancette nel silenzio, di quelle sveglie che butteresti fuori dalla finestra prima di subito. O forse è quel maledetto figlio di puttana del tempo: è così che crediamo di plasmarlo, di averlo, di possederlo fino alle sue viscere ma lo stiamo solo perdendo nelle priorità che la scalata sociale ci impone. Così che il tempo è prezioso quando fugge, così che ti accorgi di quello che ti manca quando non puoi più negare che ti manchi.
E’ turchino e trasparente il mare stamattina sotto il cielo in tempesta, c’è il vento gelido che scuote le palme, che fa tintinnare le corde nelle barche del porto, richiamo degli spiriti, mi ricorda le notti sul lago d’inverno a guardare l’orizzonte nero. “Tranquillo” c’è scritto su una chiglia bianca. Sì, ma stai calmo, chi si muove.
Tranquillo è questo lungo mare senza il mare, il ritmo lento dell’ultima cronometro, il giro dell’orologio compiuto, i rulli che sono un confine antitetico: solo noi potevamo inventare la bicicletta e poi farla rimanere ferma come un ingranaggio rotto. E sudarci sopra come se il viaggio lo stessimo facendo veramente, gocce grandi come laghi che non esistono, come le lacrime che abbiamo versato senza che nessuno vedesse. Chiudi gli occhi, il vento c’è, non devi immaginarlo. La crono è niente vista da fuori, è tutto dentro. Un big-bang senza rumore.

Ai meno duecento metri le transenne sono quasi vuote: uno si avvicina, mi chiede: “Mi scusi signorina ma lei almeno sa dirmi perché fanno sempre finire questa corsa in un giorno settimanale?”
No, ma aspetta, che domanda sarebbe?
“Chiudi una città” continua imperterrito. “La gente deve lavorare”
Sono gli ultimi duecento metri, non c’è nessuno, un corridore sfreccia verso il traguardo, vedo chiaramente le gambe tese nello sforzo. Quanti compromessi riusciamo ad impilare in tutta l’esistenza? A pacchi come vecchi VHS dimenticati e altrettanto inutili. Per fortuna, il tipo se ne va.

Le corde continuano a tintinnare lievi come quei carillon che mettiamo alle porte, entra la gente, gli spiriti parlano, io cerco di sentirli in tutto questo casino. Per un secondo penso all’unico momento in cui ho alzato gli occhi per guardare fuori dal finestrino del treno venendo qui: c’era un arcobaleno.

primoz roglic tirreno adriatico

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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