Diciamoci la verità: a chi piace svegliarsi la domenica mattina presto, quando per giunta è inverno, c’è la nebbia che sale dai campi e quel gelo che ti entra bastardo nelle ossa appena metti il piede fuori da casa? Io poi da ottobre fino ad aprile ho bisogno di almeno dieci felpe per mantenere la temperatura corporea giusta per non morire assiderata. Dopo queste banali considerazioni, a maggior ragione, non so spiegarvi perché amo il ciclocross da impazzire. Ma è anche vero che le cose inspiegate restano le più profonde.
Questo articolo è indirizzato a tutti quelli che il cx che? ed è una pura sponsorizzazione di questa disciplina, per portare sempre più gente nei campi a santificare la domenica, come un cazzo di festival rock all’aperto – invernale.
Ps: vi assicuro che l’UCI non mi sta pagando, è solo questione di cuore.

BEANIE

Parla come mangi. Beanie alla fine significa berretto: sì lui, il classico berrettone di lana e attenzione perché qui le dimensioni contano. Intendo il pompon naturalmente, che deve essere e-s-a-g-e-r-a-t-o. Come un ricco si distingue dal Rolex autentico, così la gente del ciclocross si riconosce da questo che è un vero status simbol, cioè vuol dire “sono del club”.  Nessuno ancora sa dire chi abbia lanciato questa moda ma forse, senza troppa poesia, era solo uno che aveva bisogno di tenersi la testa al caldo.
Nonne sferruzzanti di tutto il mondo, unitevi.

BELGIO

Nel Mulino che vorrei, la mia famiglia trascorrerebbe le migliori domeniche unita e felice…nel fango. In pratica quello che fanno i belgi che grazie al ciclocross hanno trovato il miglior parco divertimenti da condividere. Si entra la mattina nel circuito, si tifa, si mangia, ci si diverte, si beve, ci si coccola, ci si ubriaca, si gioca, si corre, si scivola. D’altronde il ciclismo è uno sport fondato sulla comunità e il cross ha il potere di condensare tutto quello che una gara trascina per chilometri in un circuito di un giorno. La vera anima di questa disciplina è diventata una tradizione, una cosa che a raccontarla non ci credi, una cosa da sentire, quando sei in mezzo al baratro della gente che urla e va contro mano e vedi Van Aert che sgomma in venti centimetri di fango e quelli che si arrampicano su per la collina come Bear Grills e ti chiedi dove cazzo sei finita. Ma un secondo dopo lo sai esattamente: a casa sei finita, a casa, ecco dove.

BIRRA

Diciamo che non è così facile avere voglia di una birra ghiacciata in pieno inverno, in aperta campagna, con il bosco che ti alita l’umido in faccia. Ma i belgi sono persone a parte nell’intero universo – per fortuna – e la loro birra ha il sapore pastoso del carattere fiammingo, roccioso e appassionato, come quello dei rivoluzionari. Il ciclismo e il luppolo in fondo sono fatti della stessa pasta, una tradizione antica, come l’attaccamento alla squadra. Solo che qui non ci sono fazioni. Solo che qui l’alito caldo della gente che si disperde nella sera quando si corre l’ultima gara, sa di birra, sotto il palato, nella testa. Quell’odore lì è quello della nuca di chi ami, la nuca sudata del ciclismo selvaggio. La leccheresti fino a consumarti la lingua.

FANGO

Nel Vangelo, Gesù Cristo sputa per terra poi fa un impasto di fango e lo mette sugli occhi di un cieco per guarirlo. Qui succede una cosa piuttosto simile: piove, si fa un impasto e succede il miracolo. Tutti si chiedono come sia possibile ma in realtà nessuno lo sa davvero. In fondo, chi può dire di sapere la profonda verità sulle cose? Sta di fatto che il fango ha una sacralità sua. Se arrivi alla fine con la faccia pulita sei un po’ un traditore: non hai fatto abbastanza fatica, non ti sei sporcato, non sei guarito. Non ti sei elevato.
Per la testa, il fango è tutta una faccenda spirituale, dannazione e redenzione insieme. Per il corpo, è più l’istinto animalesco e autolesionista: noi contro la natura e la natura contro di noi.
Per il ciclocross invece è il tutto.
Uno strano composto mistico che poi ti resta aggrappato tenacemente alla bici e al resto, devi sudare per lavarlo via, ancora una volta, in un cerchio infinito che non si può spiegare.

FETTUCCIATO

Un po’ come dire “transenna”. Quando vedi il fettucciato del percorso ti senti al tuo posto, un animale nel suo habitat, dentro o fuori, non cambia molto: il rapporto tra chi tifa e chi corre non cambia mai, che ci siano quaranta gradi all’ombra o meno venti al sole. Tecnicamente le fettucce delimitano il tracciato di gara del circuito e sono sostenute da paletti di legno magistralmente conficcati nel terreno alle sei di mattina da zelanti volontari. Ma visto che tecnicamente sono uno schifo, per me tutto questo è il frusciare del nastro nel silenzio, la striscia che divide a metà il sole basso dei pomeriggi d’inverno, la linea di un mandala disegnato sui campi ghiacciati per ritrovare l’equilibrio e la pace.

TRAMONTI

Se chiudo gli occhi, riesco a ricordarmi tutte le volte che ho guidato verso casa e gli alberi spogli erano sagome grigie contro il cielo rosso dei tramonti invernali con le luci delle strade che si accendevano piano come fiammelle, fuochi fatui nelle solitudini di quei pomeriggi quando il buio scende troppo presto. Giusto in tempo per l’ora del tè, un tè caldo con i biscotti dopo una doccia bollente. Se chiudo gli occhi, riesco a ricordarmi i ritorni con le dita congelate nel bocchettone dell’aria calda, a pensare che è così che esorcizziamo le domeniche e tutto il resto, davanti all’incendio infinito e primordiale di un altro giorno.

SOGLIA

Tutta la potenza, la rabbia e la sfida in qualcosa come quarantacinque minuti. Senza perdere tempo, senza il tempo di prendere fiato. Il ciclocross è una trance in cui devi essere a tutta ogni secondo e il confine con l’acido lattico è così labile che forse proprio per questo è la disciplina su due ruote più nobile e animalesca che esista: devi essere bravo e devi essere istintivo, due qualità che sempre più raramente si conciliano in un essere umano. Così, quando li vedo stare sul limite, penso che nella vita la definizione delle cose sia noiosa, mi è sempre interessata molto di più l’intensità.

wout van aert namur

VIN BRULE’

Quello più speciale in assoluto l’ho bevuto in un piovoso pomeriggio a Faé di Oderzo in mezzo ai vigneti, con la pioggia – quella fine e bastarda – e l’umido che saliva dai canali: insolitamente bianco, mi è venuto in soccorso in una situazione veramente critica. Sì, perché il Vin Brulè incarna la tradizione ma nel ciclocross è soprattutto una questione di sopravvivenza. Per i profani astemi si tratta di una bevanda calda a base di vino, zucchero e spezie, una specie di pozione che i vecchi mescolano nei pentoloni come antichi druidi e che – esattamente come in Asterix – ti rimette letteralmente al mondo. Un simbolo arcaico tramandato fino ai giorni nostri.
E poi, per chi sa trovarla, c’è poesia ovunque, anche nel tenere in mano un bicchiere bollente e sentire l’alcol che ti evapora sulla faccia congelata mentre guardi una corsa che spezza il silenzio immobile della campagna, sul far della sera. A un gradino dal buio.

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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