Scorrono le vecchie cascine immerse nel grigiore di una mattina sulla quale incombe la pioggia, isolate per i campi, semi abbandonate lungo l’argine invisibile del Piave.
“Ogni dieci anni queste case vanno sott’acqua” dice Moreno.
Ogni dieci anni arriva la piena, l’argine non esiste, il fiume invade tutto. Sembra una leggenda. Atlantide che si immerge e riemerge, avvolta dall’acqua, che resta così, intatta come le case negli acquari dove nuotano indifferenti i pesci.
Piove. Una pioggia sottile che neanche si vede. Nei canali fluttuano le alghe verdi come se fossero serpenti imprigionati e vivi, come capelli, come se volessero cantare e sono muti, continuano a sgusciare nella corrente, anguille senza pace che restano lì, guardano il cielo bianco dal fondo dei loro argini alti. Il ciclocross ha l’anima rigida dell’inverno, un po’ le somiglia, un po’ ci si scontra, come succede con le cose che amiamo profondamente. Benedizioni e bestemmie, ogni volta e per sempre. La bicicletta da portare in spalla come una croce, il cricchiare della fanghiglia sotto i denti quando cadi e ti mangi il fango, questo fango qui fradicio dei campi, dei vigneti tranquilli che si distendono a perdita d’occhio sull’orizzonte piano.
Faè è un quadro invernale, bianco e grigio e verde quasi ingiallito dell’erba che resiste. I ragazzi lo sanno, sanno sempre cosa li aspetta ma è una cosa che scelgono ogni giorno.
Il sacrificio.
Le biciclette spariscono tra i filari nudi, fili neri disegnati sulla campagna dove rimangono pochi piccoli acini raggrinziti altrettanto neri e vuoti: i resti della vendemmia. Comincia a piovere più forte, il fango in fondo ai fossi si fa denso, scivoloso come in una palude, qualcuno ci salta dentro a piedi pari, affonda e risale in meno di niente. Ci risalgono con le gambe rosse per lo sforzo, le imprecazioni a metà per non sprecare il fiato che quello serve manco fossimo nello spazio. C’è fin troppa terra qui, scivolosa senza potersi aggrappare, ci finisci dentro con la faccia. Cadere è normale, continuare anche.
C’è il profumo tenace e speziato del vin brulé nell’aria, contrasta con l’aria umida che sale dalla campagna che si fa sempre più grigia; il lampione in fondo alla strada sembra un finto sole sbucato dal nulla ma è solo la dimostrazione che la sera scenderà presto, che sarà buio in un attimo.
Una bambina sta cercando di attraversare un fosso.
“Dai la mano a Jacopo” dice la mamma “che ti aiuta lui”
Sull’altra riva c’è un nanetto di quattro anni forse che le tende la mano.
“Ti aiuto io”
Piccolo cavaliere delle terre desolate inghiottite da un pomeriggio d’inverno mentre gli altoparlanti trasmettono Personal Jesus. Vorrà dire qualcosa.
E’ nero l’asfalto lavato via dalla pioggia e, con la sera, l’acqua nei canali diventa verde, quasi azzurra, come i laghi aperti che non riflettono mai il cielo, hanno un umore tutto loro. Qualcuno ridiscende l’argine per lavarsi via il fango dagli scarpini e dalla divisa ma hanno tutti voglia di andarsene, i camper chiusi sono sagome spettrali nella nebbiolina del tardo pomeriggio.
Così poco tempo per dare il massimo. Così labile il confine tra il giorno e la sera, tra la fatica e l’essere felici. Le alghe guardano ancora il cielo da sotto come quando noi guardiamo le stelle, la pioggia canta piano la ninnananna a questi campi che conoscono il legame che c’è qui tra la terra e i corsi d’acqua, i loro ritmi.
I loro segreti.