C’è una ruota panoramica lungo la tangenziale deserta, un parco giochi coi gonfiabili che sembra uscito da un’altra dimensione, il castello di Cenerentola abbandonato nella mattina di un altro novembre così, caldo e secco e senza pioggia, come se fosse un pezzo di ottobre che non se ne vuole andare via. Niente bambini che saltano, stanno correndo nei campi polverosi con gli Oakley più grandi di loro. L’Idroscalo è uno specchio d’acqua azzurro e tranquillo coi moli deserti e il tum tum dei canottieri che tengono il ritmo delle vogate.
Incantevole e finto come tutte le nostre realtà.
L’arena la chiamano, sono le bocche d’inferno di ogni ciclocross, una voragine in cui cadi e risali senza poterti fermare, che ti spezzi le reni a farla in bici, che ti scuci i polmoni per tutta la polvere che sale fino al cervello. La bufera che hai alzato da solo. D’altronde non puoi certo smettere di pedalare, devi scegliere tra fare meno fatica o perdere i secondi, due bivi come sempre, non si può stare nel mezzo; stringere i denti proprio nell’ultimo ripido pezzo bastardo prima di arrivare in cima, in piedi sui pedali, la testa prima e la bicicletta poi. La testa sempre prima: decidi cosa essere, che puoi resistere alla gravità.
E’ drammatico l’autunno, con le sue foglie rosse, le ombre nette, il sole grande e languido. Manciate di moscerini si mischiano all’odore di fritto, di zucchero filato, di frittelle, come una fiera, come in un circo. La gente grida, salta i fettucciati gialli.
Dai che sono lì, guarda non sto scherzando, sono lì. Li prendi. Aumenta.
Aumenta.
Aumenta.
Non c’è niente che spieghi la perseveranza più di questo.
Si alzano nuvole di polvere dorata contro la luce della stagione che non vuole morire, entra negli occhi come quella leggenda del folletto che porta il sonno. Nuvole bianche che salgono dalla terra come respiri, strisce violente delle biciclette come aerei. Andava forte il tedesco, sì è vero. Andava forte anche Bertolini: sempre davanti fino agli ultimi tre giri. Ma la gente un po’ si dimentica di quello che hai fatto, una manciata di polvere d’oro negli occhi, basta così poco.
Il circuito è un mandala disordinato che assomiglia all’altalenarsi dei nostri giorni.
Il ritmo è sacro, bisogna ritrovarlo. Bisogna sentirlo. Restare in soglia per così tanto tempo, rimanere lucidi, sentire la fatica ruggire e sapere che è la sola cosa che non devi ascoltare.
Guardo quelli che smontano il percorso a tempo di record, un paletto alla volta. Al chiosco delle frittelle c’è una donna che racconta di quando veniva qui da bambina, delle estati in campeggio, la prima volta che si è rotta il mento. E io è la prima volta che mangio una frittella che non sia fritta in un olio di venti giorni, la Nutella ci cola dentro, i bambini affondano le mani nelle loro buste di popcorn calde, guardano i bomboloni con gli occhi sgranati. Vorrebbero tutto, vorrebbero correre come pazzi da un divertimento all’altro senza fermarsi mentre i canottieri vogano ancora come libellule a pelo dell’acqua languida.
Che si dissolva in polvere tutto quello in cui abbiamo inutilmente creduto. Che siano l’impeto e la leggerezza a benedire le nostre esistenze in questa giostra appena prima della sera.