E scusa se non parlo abbastanza ma ho una scuola di danza nello stomaco.
Coez
La mattina ha il sapore del burro della brioche vuota della boulangerie. Senza marmellata, senza cioccolata. Le cose semplici sono perfette quando sono fatte con amore. C’è la lunga strada deserta con gli alberi alti e neri e filiformi che la chiudono tutta tra due pareti di scheletri immobili. C’è quella luce bianca e il sole pallido e surreale di qui che filtra tra i tronchi nudi del bosco.
Che Namur fosse un posto magico lo sapevo già senza averlo mai visto. Tra me e lui c’è stato un richiamo sciamanico, un patto tra streghe. Il fango scuro e nero si impasta con le lacrime sottili della pioggia dei pomeriggi d’inverno fuori dalle case di campagna con le finestre grandi per fare entrare tutto il sole quando c’è.
Te lo giuro che ci vengo, prima o poi.
E’ da ieri che sento prudere il tatuaggio, è l’ortica del Kwaremont, il morso di questa terra e io a queste cose ci credo, credo più a quello che sento che a quello che vedo. La realtà è soprannaturale. Namur anche. Con l’odore di corteccia umida, di muschi, delle ultime foglie morte che il terreno divorerà ancora, l’odore delle patatine fritte, delle griglie, delle salse, di birra e di vino caldo. Scivola tutto in gola assieme al freddo che pietrifica gli occhi, il sapore delle domeniche del Belgio in famiglia, i bambini che corrono avanti e indietro, urlano Op, Op, Op, Alé e si infangano, si arrampicano.
Namur è un circuito duro che scende a valle lungo i fianchi del bosco e poi risale, si mangia i corridori e li restituisce al giro successivo con un sortilegio di fango, gli schizzi di un sentiero che le ruote delle biciclette segnano e risegnano, scavano e torturano come lui fa con loro, metro dopo metro. E gli ultimi diventano i peggiori.
La gente arriva a manciate, un timbro sul braccio come nelle discoteche, in fondo qui è lo sballo del sabato sera secondo il ciclismo, corrono qua e là in equilibrio per tenere i bicchieri di birra in mano diritti e non scivolare, qualcuno cade, si lava con il fango, con la birra. Ridono, sbronzi marci. Tartarughe ninja risalgono il crinale con l’aiuto delle corde come in una missione segreta, la banda con gli strumenti musicali a quadretti colorati sguscia tra le persone in coda per i ticket del pranzo, signori con improbabili cappellini con una ruota a metà piena di lucine si affrettano agli attraversamenti continuamente intasati da chi vuol vedere tutto, nessun passaggio può essere sprecato.
Il Belgio e il suo pogo di gente.
Un ragazzo cade dopo una cunetta, una curva fatta male, la ruota nel posto sbagliato, gli occhiali bianchi nel fango nero. Mentre si rialza, una signora lì di fianco, oltre le protezioni, gli chiede:
Are you okay?
Lui sorride, bianco anche il sorriso sulla faccia scura, alza il pollice, fa segno di sì, si rimette gli occhiali, riparte. Nessuna imprecazione, nessuna bestemmia, nessun lancio di niente di niente. Solo quella tenera premura verso un casuale figlio di tutti questi figli che corrono ogni santa domenica. E’ questo, la rabbia a volte non serve, la perseveranza invece è sacra, deve essere indomabile come l’amore.
Are you okay?
Sì, sì. Stringere i denti, ecco cosa bisogna fare, fino alla dannata fine, e buttarsi nell’arena, nel boato della gente che assiste al match. Ce n’è così tanta che non sembra vero, che questo davvero bisogna vederlo. E sentirlo, soprattutto, per sapere che esiste.
E’ bianca la divisa con l’arcobaleno, gli occhiali di Wout Van Aert riflettono tutta Namur, la luce che si fa grigia verso sera, il circuito che è una lingua ancora più scura, viscida, una dichiarazione sfrontata e violenta, di quelle che le senti come un volo nello stomaco, le montagne russe di un istante che ne vale altri cento. La prima volta che Mathieu si può battere in questa stagione. Le cose vanno così, un giorno si può essere più vulnerabili, un altro più forti. Si può volare come missili in certi pomeriggi, non sentire niente a parte la gente che ti incita, sei il primo o sei l’ultimo, è così per tutti. Eroi sempre, eroi per sempre.
L’aria fredda viene dal Nord, la valle è ancora più ombrosa, gli alberi più neri, la gente scatenata per l’ultimo giro di una corsa pazza. Wout incita il pubblico prima dell’ultima schiena di fango da affrontare con la bici in spalla, una mano a reggere il telaio, l’altra a dare il cinque a tutti, come le star, come chi sa quanto conta quel rapporto con il pubblico, quanto conta sentire le urla che ti dicono di andare avanti quando sei allo stremo o quando stai per vincere. Senti tutto o senti niente in bici, è una strana condizione di equilibrio che passa attraverso il dolore. E fino in fondo non lo puoi spiegare.
Come Namur, questa piccola cittadella che si lava via il fango nelle pozzanghere scure che non riflettono niente, che torna a casa in pellegrinaggio quando si fa buio, sciame di innamorati ubriachi di tutto sotto una pioggia sottile che diventa insistente, fantasmi fuori dal bosco che torna al silenzio, con i suoi solchi profondi nel fango, con il suo cielo bianco che diventa scuro un poco alla volta, nasconde le stelle, prepara alla neve, piccola bufera innocua come quella delle sfere di Natale.
Dentro ci sono io, una bambina con l’incanto di chi ha aperto il suo regalo, il Belgio con il suo orizzonte piatto cosparso di luci nel buio come una storia letta piano prima di dormire senza voglia di addormentarsi, strade di campagna senza lampioni nel buio del nulla.
Ogni silenzio ha la sua voce.