La signora affonda la paletta di metallo nelle patatine lucide di olio. Tutta la gente attorno a lei le sventola scontrini davanti al naso – una salamella normale – una con cipolla – un’altra con i crauti – due patatine – ma la polenta quando è pronta – mi può passare la maionese – come se fosse una specie di fast food. E’ un ciclocross e sono le dodici e venti, salgono i fumi dalle griglie, di fritto, di vino, di sugo come quando lasci le finestre aperte d’estate e ci sono i tormentoni sopra gli sciami di insetti che veramente arrivano dal laghetto giù in basso dove volano gli uccelli bianchi, planano sopra l’acqua argentea di sole che squarcia come frecce le piante, illuminando il tappeto di foglie cadute.
Questo è un circuito secco e infinito, lunghe poetiche rive mischiate a infernali muri improvvisi di fango: una conca, lo Stadio lo chiamano, ci tengono. Mi sembra di percorrere miglia nautiche per arrivare a vederlo tutto – o quasi – mentre un tipo con gli stivali fino al ginocchio grida una bestemmia che fende la sacra aria umida del pomeriggio.
Passa qui, non la vedi la curva com’è?
Ti incazzi, fa parte del gioco, è un amore rabbioso e carnale questo, un posto in cui pensi che ci sono ancora tanti giri invece i giri se li mangiano, volano sopra le pozze come vascelli fantasma, perdi i momenti senza accorgerti, come facciamo noi ogni volta, pensando che ci sia qualcosa di più importante da fare. Stronzate. Tempo. Certe volte vorrei mettermi in ginocchio e chiedere cosa mai abbiamo fatto per non meritarci un po’ del tempo altrui. Mi cade mezza vaschetta di patatine sull’erba come uno stupido mikado che si mangeranno le creature del bosco stanotte.
I tubi dell’acqua hanno allagato le curve, rendendole piccole paludi dove le bici lasciano solchi e solchi su solchi; dove i ragazzi passano con i telai in spalla e l’acqua torbida li riflette come uno specchio, come l’altra dimensione. Loro da un’altra parte, non lì. La gente corre su e giù a contare i secondi ma cosa vuoi contare, qui il maledetto tempo è relativo, basta mezzo giro per perdere, poi non recuperi più, come in una battaglia corpo a corpo. Gridano Alè Stefano, anche se Stefano Sala è a quaranta secondi e a risalire alle voragini si fa una fatica bestia, penso che a volte non ti ricordi nemmeno come si faccia, lo sai che è già successo, che forse basterebbe un colpo di reni per non scivolare indietro. Eppure te lo dimentichi. Gridano perché lo sanno che quando sei nella terra di nessuno non devi avere nessun dubbio su te stesso, lo sanno che è quello che ti frega.
I ragazzini giocano a rendere inquiete le pozzanghere con dei bastoni trovati nel bosco, come un rito, ci disegnano dentro le cose per chissà quale motivo. Jack London scriveva che quando eravamo bambini abbiamo avuto contatti con le nostre vite precedenti, visioni ultraterrene che ora abbiamo dimenticato, che forse tornano nei sogni quando sono puri. Chissà che viaggi abbiamo fatto per essere così, incompleti, silenziosi all’improvviso, vertiginosi sotto la superficie immobile dove si riflettono le stagioni.
Caffettino? Chiede uno.
Sì ma dove, non c’è niente.
In una delle cascine un lampadario pende con una luce fioca da una finestra di una stanza che sembra così tiepida e sola.