Lungo le vie diritte che attraversano i campi che luccicano ancora ghiacciati dalla notte ci sono case separate dai fossi, piccoli ponti e cancelli di ferro battuto, giardini ben curati e persiane azzurre, verdi.
Di tanto in tanto c’è una rotonda e poi una chiesa, sempre con lo stesso alone di deserto attorno.
E’ strano, quasi davanti ad ogni casa ci sono cappelle che proteggono una statua della Madonna. Sono tutte diverse, bianche o con le colonnine sottili, forse è un’usanza, un po’ come quelle che si mettono di solito in giardino.
La mia nonna aveva una grotta, una grotta con i pesci rossi e un cancelletto bianco. Il lumino acceso tutti i giorni e tutte le notti.
Forse è valsa davvero la pena venire fin qui, anche dopo aver dormito cinque ore ed essere stata svegliata tre volte dal mio gatto che certe notti diventa come un bambino con la mamma.
Silvelle è una piccola frazione fatta di quelle stesse case curate e un fiume che scorre senza che ci si renda conto nel letto profondo del suo canale.
Che questo non è il solito ciclocross si vede subito e si rimane pure un po’ spaesati. C’è odore di vin brulè che spezza il gelo, i fettucciati sono peggio che un labirinto, i campi sono polverosi e secchi per metà, il resto è ancora coperto dalla brina e aspetta paziente che il sole trasformi tutto in fango.
La gente corre di qua e di là per vedere i passaggi, si trascina dietro cartelli, campanacci, vuvuzelas. E tutto quello che si può usare per fare rumore. I tifosi di Luca Braidot si son portati le motoseghe, si sente il motore nell’aria, si confonde quasi con le urla di certe cunette prese d’assalto. Il circuito si riempie, i pioppi magri in lontananza interrompono l’orizzonte piatto, pennellato di azzurro e di bianco. Nuvole che a tratti striano il sole.
I bambini gironzolano senza briglie con i loro cappelli a filo degli occhi. Corrono da una curva all’altra, confabulano tra di loro. Non sentono il freddo, piuttosto sembrano piccoli animaletti che conoscono il loro territorio. Sono abituati persino a sapere cosa gridare, quando incitare, quando farlo più forte. Lo fanno con il loro solito modo, come se fossero adulti. Forse è questo il segreto: lasciargli respirare il ciclismo come se fosse una cura prescritta, come lo iodio passeggiando accanto al mare d’inverno.
A volte, per imparare, basta ascoltare. E per ascoltare bene basta l’istinto. Qualcuno una volta mi ha detto che impariamo e ricordiamo davvero solo quello che ci potrà servire. Mi sa che aveva ragione. Se non altro questo è uno sport che riesce a darti insegnamenti indelebili in pochi istanti.
I bambini continuano a correre e a incitare, a passare da una cunetta all’altra. Lo sanno già quale grande sacrificio è il ciclismo. Lo sanno già che è una delle poche cose che li rende così, gelati fuori e caldi dentro, con l’adrenalina a mille, con il cuore tutto lì.
Il sole si fa appena più caldo, il ghiaccio nei rigagnoli si scioglie lentamente e nella foga qualcuno non se ne accorge. Per far prima a vedere il passaggio e risparmiare chissà che, un tizio corre e ci finisce dentro, pure la scarpa rimane incagliata nella poltiglia di acqua e fango. Con nonchalance se la ripesca e nonostante sia più imbevuta di un savoiardo dimenticato nel tè, la rimette e si affaccia alla transenna per incitare i primi. Il passaggio al volo, uno degli ultimi, e chissenefrega del piede che ora di sera avrà un principio di congelamento.
Ci perdi la testa, a volte. Che sia su strada o no, c’è una specie di calamita che non ti fa pensare a niente altro. Chiamalo amore, chiamalo niente. Eppure è così.
Basta vedere Paolo Guerciotti che si fionda sull’arrivo inseguito dagli insulti di quello della sicurezza. Vuole abbracciare il suo Jakob, vuole farlo subito prima di tutti gli altri. No, è vero, non si può stare lì in mezzo, ma cosa vuoi fare in quei momenti lì? Piangi, gridi e ti incazzi anche facilmente, qualcuno ti spinge, qualcuno ti stringe. Benedetta linea bianca, è sempre la solita storia.
Basta vedere quelli che si portano il cartone della pizza sul campo, correndo come camerieri in ritardo, sapendo che nei punti migliori bisogna arrivare prima degli altri. Stavolta son spallate anche fuori dal percorso.
Dentro si mangiano gli sterrati come se il tempo sfuggisse e loro dovessero rincorrerlo. E’ colpa di questa giostra di campi, di questa terra che le biciclette sollevano in brevi nuvole di polvere, pulviscolo semidorato nella luce del pomeriggio, di tutta questa gente che urla e che si sbraccia e che si sposta da una parte o dall’altra come eserciti di formiche. Ti viene da andare più veloce.
Una pioggia di coriandoli tricolore e un sole rotondo e rosso mi accompagnano a casa. Scivola giù verso l’orizzonte piatto che scorre verso
Milano. Poi cambia, cambia tutto ed è buio in un attimo. Certe volte mi sembra che i giorni siano fatti di anni. Ascolto la gente sul treno che parla a caso.
Da stasera solo verdure.
Ma lo sai quanto lo pagano?
Sì, stiamo tornando ora. Dieci minuti e siamo a casa.
Ci sono dei giorni in cui mi sembra davvero di essere in un circuito di cross con la consapevolezza che devo andare a mille eppure è tutto talmente incasinato che ho paura di aver perso il vero obiettivo. Ma forse, anche questa volta, la sto guardando dalla prospettiva sbagliata: i veri traguardi non se ne vanno mai. Puoi perdere la bussola, puoi persino smettere di vederli ma ti resta una freccia piantata nell’istinto.
Una freccia che ti guida anche quando sei troppo stanca e hai voglia di tenere gli occhi chiusi.
Molto bello
Grazie Manuel! 🙂
…ho letto tutto d’un fiato, molto molto volentieri!!!!!!! Grazie Miriam, sei sempre la mia scrittrice di ciclismo preferita, non vedevo l’ora di leggere l’articolo di Silvelle, BELLISSIMO!!! buon proseguimento, Francesco Pamio.
Grazie mille Francesco 😉