C’è il solito bar sotto i portici che si affacciano sulla piazza con il bancone lucido e rigorosamente al buio, con le crostatine alla cioccolata e alla marmellata sottovetro, il pavimento in mattonelle di graniglia, e le piante finte sul paravento prima del bagno. Romanengo è un piccolo paese circondato dalla campagna tutta uguale, verde e diritta. E gli alberi, spesso in filari, all’orizzonte. La bassa. Con le sue strade quasi perse nel nulla con i fossi da una parte e dall’altra, dove nuotano alghe come chiome di spiriti dell’acqua. C’è odore di asfalto cotto dal sole, di erba secca, di siepi di pitosforo che sbucano dai giardini deserti e ben curati. E’ strano come le cronometro sembrano scegliersi i luoghi che si avvicinano di più alla loro anima.
Le biciclette sono magre figure in attesa, fisse sui rulli sotto i gazebo o una macchia d’ombra provvidenziale; l’acqua scroscia sui cordoli dei marciapiedi, qualcuno ci si rinfresca le mani, qualcuno se la butta proprio in testa, la lascia scivolare sulla faccia, sulla schiena, si mischia al sudore che appiccica addosso il body per metà. Fa caldo, forse è uno dei primi giorni in cui l’aria di giugno inoltrato rende torrido il pomeriggio.
Da una cascina appena fuori paese sbuca un signore, resta di guardia accanto a una delle colonnine del cancello in ferro battuto. Passa una moto, il corridore con la sua ammiraglia. Un alito di vento, caldo ugualmente, una virgola di quel rumore, quello della ruota lenticolare. Un morso.
Il signore prende un innaffiatoio verde, nell’attesa annaffia le sue piante che stanno tutte ordinate in filari accanto alla cascina vicino a un trattore che le veglia e sembra messo lì per farci un quadro.
Gli ultimi chilometri del percorso sono una strada diritta fino alla chiesa, vegliata da alberi di noci. I campi da una parte e dall’altra, qualche ortica nei fossi, qualche pianta di more. Le biciclette passano come rintocchi del tempo. Il tempo, il vento. Conta questo quando sei piegato sul manubrio e ti aggrappi alle appendici. Fuori il silenzio, dentro il tuono, come certi temporali d’estate che non ci giureresti che stanno arrivando da tanto che il cielo è azzurro. Passano su quella strada tra due fossi, rompono il silenzio di tanto in tanto, interrompendo qualche grillo lontano. Passano veloci in quell’immobilità. Il sole e l’ombra per un momento sulla divisa, a chiazze come sull’asfalto.
Che Manuel Quinziato stia andando forte si capisce anche a occhio nudo, anche lontano dalla voce dello speaker. Perché quell’ultima curva, quella dei trecento metri la pennella in un istante e ha doppiato qualcuno, di sicuro. Dall’ombra dei portici lo incitano i clienti abituali del bar in mezze maniche di camicia e i ragazzi under in maglietta e pantaloncini della divisa. Aspettano il loro turno e forse sognano di piegarsi così in quegli ultimi metri. Significherebbe prendersi il Tricolore, proprio come ha fatto Manuel. La piccola e modesta folla di quel pomeriggio gli corre incontro, lui abbraccia Dario Broccardo con la faccia lucida di sudore che brilla in quel sole delle cinque. Dario è modesto, dice che sono i suoi corridori ad essere forti, basta solo dargli la giusta direzione. Ma tutti sanno quanto questo sia fondamentale. Senza direzione sei fregato, ovunque.
E’ insolita quella conferenza stampa seduto sul penultimo gradino del palco. Lui ha la maglia tricolore e un braccialetto del Dalai Lama al polso, gli altri gli stanno attorno. Vorrei ascoltare meglio ma non ci sono microfoni e Manuel ha la sua solita voce pacata. Scandisce le parole ma non basta per sentirle tutte sopra il brusio. Gli chiedono qualcosa, parlano di Gabriel Garcia Marquez per non so quale motivo.
Mio figlio si chiamerà Gabriel, dice.
Se c’è una cosa a cui teniamo è che le persone che amiamo siano orgogliosi di noi. E non per gratificazione altrui, semplicemente perché “sono orgoglioso di te” è una delle frasi d’amore più quiete e potenti che esistano. Questa è una specie di forza. E un padre lo sa, lo sa ancora prima di vedere suo figlio per la prima volta. Forse Manuel continua a pensarci, anche quando gli fanno altre domande. Gabriel che ancora non ha visto nulla e può già essere fiero di tutto, anche di questo giorno.
C’è odore di campagna, di erba, di fieno, c’è il caldo di un semitramonto di oro liquido. Mi viene da pensare che pecchiamo sempre di disattenzione sulle cose semplici, non ci fermiamo ad ascoltare l’aria di giugno, a immaginare una storia tra l’ombra dei noci e le chiazze di sole. Crediamo sempre che la frenesia voglia dire vivere. Invece, in giornate come queste, il ciclismo ci riporta ai nostri deserti migliori, quelli in cui capiamo di cosa abbiamo bisogno davvero. Noi contro il vento e contro il tempo. I sogni tra il silenzio e tuono.
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