Il vento sferza questa cresta arida sulle colline con la terra spaccata dal sole come d’estate: il deserto di un altro pianeta circondato dal nulla. Laggiù nella valle corre un trenino che sembra un giocattolo, è il solo segno di vita umana in questa specie di landa desolata in cui il vento soffia a tratti e il sole rende bianche le strade dove le macchine passano e non si fermano, sollevano tifoni di polvere che travolgono come una tempesta di sabbia, ti ritrovi microscopici granelli tra i denti e non sai manco come siano finiti lì. Sento con precisione la barriera che si sta formando tra me e le cose e un po’ mi dispiace ma non c’è grande scelta, vorrei sapere come si fa a lasciare perdere, a far finta che non sia successo niente.

Lingue di polvere salgono dalla strada sull’altro versante, come quando guardi sulle cime di certe montagne e vedi il vento che soffia la neve verso il cielo azzurro, come piccoli comignoli delle fate. L’elicottero risale la collina, per un millisecondo un raggio di sole colpisce l’abitacolo illuminandolo: un fulmine argenteo sopra la corsa che sta arrivando. No, non sono lacrime queste, è solo la polvere negli occhi. È solo la stupida sensazione di aver perso per sempre la tempesta perfetta, di aver avuto solo il suo lampo migliore.

Il gruppo di testa si lancia lungo le montagne russe del settore otto, passano in un lampo sotto il sole abbacinante delle tre con l’aria bastarda della primavera che si mischia con la polvere e taglia la gola e il respiro, il solo metro che in corsa ti fa capire di essere ancora vivo. Sante Marie è un posto per pregare, un posto per sacrificare, per dimenticare. La gente pensa che stare qui sia eccitante ma non è vero. Forse lo è alla TV, con la telecronaca a tutto volume e le telecamere sempre sul gruppo di testa, ma adesso, senza il suo pubblico, senza l’altra metà di sé stesso, il ciclismo torna ad essere una questione privata. Gli scatti, i cambi, il ritmo alienante non hanno rumore. Qui è la sola, nuda, cruda corsa immersa in quel silenzio che ti mette davanti a te stesso, che ti fa pensare a perché mai queste infernali colline sono così infinite e non riesci neanche a vederne la bellezza, che tu sia davanti o che tu sia dietro. Nessuno ti dice bravo, alé, è fatta. Nessuno per chilometri e chilometri, nessuno, nessuno.


Come i cacciatori di tempeste, sappiamo che inseguire i fulmini è pericoloso e ci è già stato fatale una volta. Ma non possiamo evitarlo. Non esiste più niente al mondo che possa essere paragonato a quell’istante e ancora guardiamo in faccia l’uragano desiderando di trovarci nel suo occhio per una sola volta che non sia l’ultima. Ancora inseguiamo quello che ci ha spaccato in due, sapendo che non esistono altri destini. Passa il fine corsa, le ombre dei cipressi cominciano ad allungarsi sulle strade deserte. Il fulmine è già altrove e noi con lui.

David K. Hoadley è stato il primo storm chaser della storia. Iniziò ad appassionarsi alle tempeste nel giugno del 1956 e da allora non ha più smesso di inseguirle. Da autodidatta Hoadley ha imparato da solo la meteorologia e ha assistito a oltre 200 tornado, guidando per circa 1.210.000 km durante la caccia.