Ci sono manciate di ghiande e i ricci delle castagne sventrate dall’autunno sul terreno secco e ghiacciato e duro di metà gennaio. Guardo la mia ombra insieme alle altre ombre dei pini sul tappeto di aghi che odorano di sottobosco graziato dal sole. Con questo parka sembro una specie di insetto, tipo quelli che vivono nella succosa pesca di James che pensi siano una specie di allucinazione di un bambino triste invece è tutta roba vera. Cioè, loro ci arrivano veramente a New York e la pesca si schianta pure sull’Empire State Building.
Tra tutti i film di Tim Burton, forse quello è il più sfigato. Un po’ come questo ciclocross, alla fine. Niente partecipanti a tre cifre, nessuno ma proprio nessun numero da sbandierare e una data quasi infelice che viene sempre dopo il Campionato Italiano e poco prima dell’inizio della stagione su strada. Nel dannato mezzo. In quel periodo che uno non vede esattamente il motivo per fare quarantacinque minuti a tutta in una domenica mattina di sole. Forse hanno ragione, forse quel motivo non esiste.
Ma è assurdo come – escludendo il Belgio, naturalmente – quando penso al ciclocross, mi vengono subito in mente un delirio di immagini che hanno a che fare con il circuito di Bosisio. E’ colpa mia, sono fatta così, ho sempre avuto questa cosa di mettere un’aura speciale sulle cose che sembrano assolutamente banali. Ma questo tracciato è strano, non ha quei vortici in cui ti ammazzi le ossa, niente rampe infernali, niente fango, niente paludi dalle quali non riemergi, niente scalini direttamente dall’inferno. Niente di niente. Solo questa sensazione surreale di essere alle soglie di una porta magica. Il bosco tutto nel sole con un mare di foglie secche che ti arrivano alle ginocchia, che ci sprofondi dentro e la minuscola pineta dove i raggi passano attraverso come una spada nelle costole, ma dolcemente. Tutto dolcemente.
E invece no, invece devi farlo a tutta lo stesso.
I ragazzini fanno a gara nel dire a quanto hanno preso la curva, guardano il mondo con gli stessi occhiali di Sagan che gli coprono la faccia fino al naso, guardano quel loro mondo in cui si sentono eroi o forse solo piccoli folletti con le casse e la trap ad alto volume, guardiani spaccasilenzio che impennano anche se arrivano ultimi. Sì ma cosa ce ne frega poi: il motivo per fare quarantacinque minuti a tutta esiste sempre. Si chiama divertimento e il ciclismo ha una di quelle formule matematiche che lo collega alla fatica. Da fuori sembrano tutti pazzi, ma solo quelli che entrano nei manicomi sanno sentire la poesia dietro le grida.
Alé, alé, alé.
Tutta la campagna spezzata dal richiamo, due porte per i mondi paralleli lontani e il silenzio improvviso e catatonico di quando sei solo e non puoi fare assolutamente niente per non ascoltare le gambe che ti fanno male, non puoi fare niente per fermarti. Non puoi fare niente a parte pedalare.
I ragazzini dicono dai Marco, fanno una specie di ola, un rullo di tamburi che so: non vogliono che scenda dalla bici agli ostacoli e lui li accontenta. Dio, ma perché? Cioè, sei secondo da quattro giri e oramai ti ci vuole un miracolo per rimontare, cosa te ne frega di saltare alla Mathieu Van Der Poel?
Sia lodato il motivo che ci fa volare. Sia lodato quel piccolo stronzo di un motivo che ci fa guardare il mondo come se ce lo avessimo in mano. Non c’entra la vittoria, non c’entra proprio niente.
Non scende di bici neanche al giro dopo.
Sia lodato il resto.
In questa linea di confine dove resta l’autunno sopra il ghiaccio della notte, si mischia l’odore delle patatine fritte a quello del vino. Dovremmo essere grati a quei piccoli miracoli che succedono per noi e a tutte le cose semplici – ma intense – che restano inspiegabilmente uniche al mondo.
In questa cattedrale di pini nel pomeriggio accendo la mia candela.
Grazie.