Non sono mai stata brava con i diari. Ne ho alcuni, ma ci ho scritto solo quando ero profondamente delusa. Forse è così che funziona. Non sono tradizionalista, la penna la uso raramente, non riesco a star dietro ai pensieri, ho bisogno di cose più veloci, come il pc che poi odio anche quello. Fuori c’è la notte e dietro il gatto che dorme sulla sedia che dovrei usare io, sento il suo respiro, sento che scandisce il tempo, il vuoto tempo di un’altra notte come le altre notti. Sono sempre stata in fissa con il respiro, quel piccolo stupido lieve miracolo che senti assordante solo quando c’è silenzio. Fuori c’è silenzio e a volte penso a Jack sotto al suo albero nel bosco a meditare, seguito dai cani, probabilmente gli unici esseri che abbiano mai capito il perché passasse gli inverni lì.
Nel ciclismo, il respiro è davvero tutto quello che resta per capire se sei vivo. Le volte in cui te lo dimentichi sono impercettibili ma innumerevoli. Sarà che la fatica è disumana e ti sembra di doverti staccare dal corpo per raggiungere il confine, tipo un’esperienza mistica che poi non riesci a spiegare agli scettici. Forse è per questo che esistono i templi, luoghi sparsi che sono come candele in mezzo alla tormenta, tutti sanno che sono come bocche dell’inferno, scale per il paradiso. Posti che sanno cos’è il pieno e il vuoto, vivono della presenza e sopravvivono alla mancanza.
N 50° 46’ 19” E 3° 53’ 24”
Sento l’odore delle panche di legno di quel sabato pomeriggio, il rumore esatto della porta d’ingresso, la luce come tante altre luci bianche che mettono strisce nella penombra delle cappelle. Ho scritto una preghiera, per chi la meritava e per chi no, pensando a quante invocazioni e a quante bestemmie erano passate di lì, come in una guerra. Quella collina con la croce nera sopra il cielo bianco. Uno non può neanche immaginare tutto quello che succede lì in un solo giorno dopo giorni e giorni di silenzio ed è questo il miracolo, il sacro patto che il ciclismo e i suoi luoghi hanno stretto. Parlano di lui quando non c’è, in un modo inspiegabile, come se il mondo fosse fuori e noi dentro. Dove non si sa. Eppure so esattamente che odore ha la salita così breve e secca che porta su, i suoi sassi stretti e larghi che li senti sotto le suole delle scarpe e il Belgio immenso là sotto a dire che la superficie non ha la capacità di urtare niente, a differenza della profondità.
N 50° 30’ 56’’ E 5° 14’ 48”
Le finestre grandi e le scale strette e ripide che tutto si sviluppa in altezza come le cattedrali, come il fumo che esce dalle torri di raffreddamento sopra le case, giganti quieti e inquietanti. I giardini d’inverno sono immobili sotto la pioggia sottile e obliqua per il vento, rivedo la capra immobile dietro le sbarre scure. Una statua di ghiaccio nel silenzio di un muro senza gente, come una chiesa sconsacrata, con le sue cappelle bianche di una via crucis. La bicicletta è un’ossessione senza paragoni, come quando ti danno cento frustate e tu stai lì come una capra pietrificata a farti dare la centounesima. Poi non so se è un bene o un male. I fili della funivia immobile collegano la montagna alla chiesa. Non c’è niente alla fine della salita, un beato niente se non quella chiesa scura e gotica e chiusa. Scollini e non trovi niente, tipico della vita. E la pioggia di traverso, l’aria che non la senti e poi ti si infila tra gli organi e le ossa. La capra è sparita. Imperterrita guardiana di Huy in un pomeriggio fuori stagione, fuori da ogni piccola nostra logica. Io il ciclismo non lo perdonerò mai per avermi fatto innamorare di tutte queste stupide, grezze cose.
N 50° 23’ 17” E 3° 25’ 27”
La foresta ha lo stesso odore di tutti i boschi del mondo, di corteccia bagnata dalla pioggia, di muschio, di terra umida e molle, di erbacce che crescono ovunque. Eppure gli spiriti hanno battezzato questo posto come una porta per l’altro mondo, una lunga strada verso il bianco lattiginoso dell’infinito. Le gocce mettono piccole perle luccicanti sulle cose, impastano il fango nero, sacro fango di Arenberg che la miniera ha depositato negli anni senza nessuna poesia. Sembra di sentirlo sotto ai denti, a digrignare il silenzio profondo che c’è, intervallato dal carillon della pioggia, come dentro a una sfera di neve con il Mago di Oz e il muschio fluorescente lungo i binari lucidi e dimenticati. Mondo contaminato e perduto, fuori dal resto, nel mezzo del nulla. Risento l’odore di cibo nell’unico ristorante aperto fuori di lì, il gatto sull’insegna, un ciclista su un velocipede, un mazzo di girasoli. Siete qui per le biciclette?
Sì, che certe cose immense le vedi da uno sguardo, uno solo basta. Lo stesso sguardo di questo posto che prima era senza nome, disperso sul confine tra due popoli, poi è arrivata una maledetta corsa, cento milioni di persone che l’hanno amata ed è cambiato tutto. Se l’agonia dell’attesa avesse un colore sarebbe questo: bianco il cielo di quando ha appena smesso di piovere, di quando chiudi gli occhi e senti l’acido lattico che ti blocca anche la testa, di quando vorresti svenire per il dolore e invece non succede. Perché quello è il limite, quello lì è il fantastico, straordinario, irraggiungibile limite. Nebuloso confine tra chi credevamo di non poter essere e quello che siamo.
N 50° 40’ 40” E 3° 12’ 19”
Nessuna riga bianca e immacolata. Nessun segno netto, ma una serie di croste larghe come continenti alla deriva, come se qualcuno avesse disegnato fantasmi senza volto, come il volto slavato delle tre del pomeriggio piovoso e fortunato in cui si può entrare nel velodromo senza nessuno, tempio imbevuto della tristezza di una città che non è bella per niente. Chiudo gli occhi, non sento più il mio respiro, sento il battito violento di un altro pomeriggio, la gente che quasi cade dagli spalti, il boato come un pugno nello stomaco quando sei ubriaco. Recupero la voragine che c’è tra questo e quell’altro posto: sono gli stessi, identica la linea azzurra che corre attorno all’anello, vuote le sedie, larghe pozze nel fango tra il prato e la pista che riflettono la luce surreale di un ora come tante. Ma qualcuno mi ha detto che gli spiriti ti seguono e ti premiano quando cerchi costantemente la bellezza. Per questo non ci sarà mai più un raggio di sole che mi farà vedere il velodromo come quel pomeriggio: la prima volta sulla linea bianca, un solo fottutissimo istante, folgorante come tutte le cose che inseguiamo per una vita intera e che poi vengono dimenticate, perché conta il viaggio più di tutto il resto.
Apro gli occhi. Se dovessimo eliminare tutti i collegamenti tra testa e parole sarebbe molto più semplice. Ma in questa vita dobbiamo allenarci per tutto, anche a lasciarci andare.
Chiedo alla notte che per ogni vuoto ci sia sempre un pieno che spezzi le paure, che spieghi le cose, che ci faccia sentire in un istante in paradiso. Tra mille casini, al posto giusto per onorare questo passaggio.