C’è un rituale nelle salite dove passa il ciclismo che si ripete ogni volta, come una quotidianità ritrovata tra amici che si vedono dopo un po’ di tempo e capiscono che sono sempre gli stessi, si vogliono bene ancora come prima e continueranno a volersene.
Oropa, nel silenzio di un sabato mattina, si prepara al Giro d’Italia. La gente sale per i tornanti con gli zaini in spalla, le bandiere, gli striscioni sotto braccio. Un pellegrinaggio quieto. Perché sì, è vero: le salite sono un po’ come una religione. Hanno i loro riti e i loro sacrifici. Le salamelle a bordo strada, le bottiglie di birra ghiacciata semivuote in mano e le canottiere sudate, i piedi doloranti. Mancano ore e ore al passaggio dei ciclisti, le transenne non sono ancora state montate, qualche lenzuolo sventola nel sole e in quell’aria fresca che sta portando nuvole nere. Due ragazzi con un secchio di vernice bianca e un rullo da imbianchino stanno scrivendo qualcosa sull’asfalto granuloso: “Vita in salita”.
Per Marco Pantani la salita era la vita stessa. Quelle curve che salgono arcigne hanno sentito il boato della gente che lo aveva visto scattare, hanno sentito il silenzio della sua bicicletta. Si risorge sempre in silenzio, anche se attorno c’è rumore. Si risorge senza parole perché il coraggio è muto. Era tornato alla sua vita dopo le sfortune, anche quel giorno, dopo l’incidente con la catena. Oropa è stato un pellegrinaggio di rabbia anche per lui.
E a pensarci bene il ciclismo è sempre in salita, anche quando la strada spiana. E’ sempre un combattimento tra l’anima che vorrebbe arrivare e il corpo che fa fatica, l’umanità che reclama la sua parte. A pensarci bene la salita non porta via solo le gambe ma anche la testa. Il dolore non fa pensare a niente altro. Così era per Marco, il male fisico portava via quello morale, gli dava forza, era il suo viatico per arrivare da solo, per staccare tutti e fare il vuoto.
Su, per la strada verso il santuario, Marco è ancora negli striscioni, scritto sull’asfalto, vernice bianca nella memoria sempre più granulosa.
La gente si accampa attorno alle transenne, mangia un panino e guarda il cielo che, a parte qualche raggio di sole, è sempre più grigio. Sperano che non arrivi la pioggia perché manca ancora tanto al passaggio ma stoicamente tengono il loro posto. Non si muoverebbero da lì nemmeno con l’acquazzone. Fa freddo e con il mio compagno di viaggio inganniamo il tempo mangiando, tra uno scomodo guard rail e una transenna proprio sotto il cartello dei meno trecento metri. E’ il solito rituale, la solita attesa. Infinita eppure piena. E’ il senso di tutto. Il ciclismo ti insegna anche che per le cose belle bisogna aspettare. Per le cose belle bisogna avere pazienza, essere tenaci, non mollare, restare per tutto il tempo necessario.
Cinque ore dopo, quando passano le prime moto, quando tutti si affacciano per scorgere le bandierine della macchina di inizio gara, ricomincia l’incanto crudo di questo sport. Ogni volta, tutte le volte, anche qui a Oropa dove la gente si è riunita come in quel giorno, come quando Marco si è mangiato posizioni ad una ad una, in pochi chilometri. E’ lo stesso incanto: la fatica che arranca, il sudore e la gente che si risveglia, che urla, che applaude. L’elogio al dolore e al coraggio. Sono istanti, passano i primi poi arrivano tutti gli altri, alcuni vicini, alcuni più staccati. Oropa ha il suo verdetto, ha scelto lei anche questa volta. Quando passa Fabio Aru, sulle sue gambe lunghe e magrissime, con la bocca spalancata per lo sforzo, tutto proteso in avanti, si alza un boato. E’ un istante che dà i brividi, mille e mille voci che diventano una. Un istante che vale l’attesa infinita. Passa e va, come tutti i momenti e non esistono parole per dire che cos’è stato. Come spiegarlo? Il ciclismo è come la poesia, non si spiega, perderebbe d’intensità. Ha solo bisogno di essere vissuto, di guardare quei ragazzi salire e sentire che cosa succede dentro. Le salite bisogna ascoltarle, come tutte le cose belle.
Aspettiamo gli ultimi che arrivano mentre gli altri scendono, mentre qualcuno comincia a scavalcare le transenne e ridiscendere a festa finita.
Poi risaliamo, facciamo slalom tra le ammiraglie che scendono, tra la gente che risale alle macchine, un fiume con la corrente in due direzioni. Ogni tanto si fa largo qualche ciclista che ha deciso di raggiungere in bicicletta i pullman che li aspettano ai piedi della salita. Hanno le facce stanche e sconvolte dalla fatica, gli occhi persi di chi ha dato tutto. Sono belli perché sono veri. La bellezza autentica non ha le formule che crediamo noi. E’ fatta di qualcosa che non si può ricreare, che si deve afferrare quando c’è. Bisogna afferrare tutto al volo, quelle espressioni sfiancate dalla salita, quelle biciclette che si fanno largo tra chi oramai ha solo voglia di tornare a casa. Anche loro hanno voglia di tornare in albergo, di abbandonare le gambe ai massaggi, di prepararsi alla cena e poi al letto.
Perché il giorno dopo li aspetta Montecampione. Una vita in salita. Sempre sui pedali, sempre pronti a quella passerella tra la gente che aspetta il loro dolore per applaudirli, per dire che arrivare fino a lì ne è valsa la pena.
Torna il silenzio, sbuca un ultimo sole dietro l’imponente santuario grigio, bacia l’irreale piazza deserta, i palloncini rosa appesi ai lampioni. C’è solo una notte che separa il Giro da un’altra tappa, da un altro arrivo, da un’altra salita. Oropa ritorna a essere quella di sempre. Il ciclismo, però, l’ha marchiata per sempre da quel giorno del novantanove
Anche mentre scendiamo verso Biella per tornare a casa, quei muri parlano di Marco, di un ciclismo che aveva conquistato tutti, di biciclette che soppiantavano i palloni da calcio. Forse tutti gli rimproverano di essersene andato troppo presto. Ma gli scalatori non sono come gli altri, hanno bisogno di salire per sentirsi bene, hanno bisogno di scattare quando tutti gli altri arrancano. Per ritrovare sé stessi. Quel silenzio attorno a tante voci non c’è da nessuna parte. Da solo e con gli altri, la solitudine mischiata alla felicità.
“VITA IN SALITA” è una canzone di Marcello Bettaglio. Tra l’altro, anche autore della scritta sull’asfalto. I casi della vita. Ascoltatela a questo link:
Se sommo le ore, forse ho aspettata qualche mese a bordo strada nell’attesa del passaggio di ciclisti. Andavo per Paolo, ma andavo per tutti quei condannati alla fatica, silenziosi nello stordimento dell’affanno: stavo in salita ad aspettare e aspettavo per ore.
Dal San Baronto, alle Torricelle, la mistica della sofferenza è sempre uguale. Anche il popolo del ciclismo ha in rituale di condivisione e di partecipazione, sempre uguale. In qualsiasi topografia la passione di chi aspetta: vibra alla stessa frequenza.
Come dimenticare i genitori di Leonardo G. a bordo strada che arrivano da Roma con l’Alfa 33 color verdino-metallizzato che con generosità nel bagagliaio custodiva chili di cotolette, pane e vino? Per tutti, anche non conoscenti, c’era sussistenza. Questo è il popolo del ciclismo: semplice, genuino, amabile. La corda che ci teneva uniti era passione. Il ciclismo è sport operaio, noi si applaude tutti perché si conosce quello sforzo, quella condanna entusiasmante cui il pedalare condanna.
Non amo i velocisti, adoro gli scalatori. L’eroico gesto si incornicia nella strada in salita. L’umiltà del ciclista mal si associa all’alterigia di alcuni, per questo – ed anche dell’altro – non ho ammirato Pantani. Troppo sfacciate le sue imprese per essere apprezzate, tanto disumane i suoi recuperi per essere fino in fondo veri. Troppe le iperbole con le parole.
Non mi piacciono i campioni dalle grandi imprese – sono vecchio di questo sport – temo nascondano le sorprese, temo sempre qualche inganno.
È la storia che ce lo dice e lo conferma.
…..non faccio alcun commento ……mi sono commosso come per l’articolo su Rodríguez.
bellissimo come sempre!
Bellissimo racconto. Ero con mio papà, mia mamma, mio zio e mio cugina ai -350 dall’arrivo. E’ stata una di quelle giornate che ti rimangono nel cuore. E comunque è proprio vero: ogni volta che vado a vedere il ciclismo ho la sensazione che siamo sempre più o meno gli stessi e mi verrebbe voglia di salutare tutte quelle facce ormai familiari 🙂 Mi è solo dispiaciuto che diversi spettatori avessero cominciato a scavalcare le transenne quando la gara non era ancora finita: i veri appassionati applaudono e incitano anche chi passa a 28′ 03” come il buon Murilo Fischer, che quando l’ho chiamato mi ha sorriso e mostrato il pollice in su: uno dei momenti più belli della mia giornata.
Grazie per il tuo commento, Carlo. E’ davvero bello l’episodio di Murilo Fischer…un piccolo ricordo speciale. Anche a me è dispiaciuto vedere le persone che scavalcavano le transenne (anche con le bici!!). Aspettare la macchina di fine corsa è un gesto d’affetto verso i corridori e anche di rispetto per quello che fanno.
Ciao Miriam, non ho parole per commentare il tuo articolo, ora vorrei essere sulla mia bici sulla mia salita preferita quella di Marco, il Cippo. Il Carpegna mi basta. grazie ciao andrea
Inviato da iPad Andrea Sgarzani
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Grazie a tutti per averlo letto!! 🙂