Quando penso agli abbracci che davo a mio nonno, prima che se ne andasse, mi ricordo il suo profumo. Nonostante l’età e la malattia, si faceva la barba tutte le mattine, si pettinava i capelli, si profumava. E poi la camicia, la cravatta, le scarpe. Sempre così, ogni giorno. “Signori si nasce” diceva.
Hugo Koblet nacque a Zurigo, in un quartiere popolare. Niente nobiltà, né soldi a palate, dunque ma una piccola panetteria gestita dai genitori. Ed è facile, forse,
immaginare il giovane Hugo, in bicicletta, per le vie svizzere, mentre consegnava il pane. Così si fece i muscoli e la tempra per diventare corridore. Così. Come tanti altri campioni di quel tempo che sono cresciuti con il lavoro, che si sono sporcati le mani prima di appoggiarle al manubrio. Koblet uscì dall’anonimato quando, nel 1947, vinse la prima tappa del Giro di Svizzera, staccando Coppi e Bartali. Nel 1950 fece suo il Giro d’Italia e diventò il primo straniero a vincere la Corsa Rosa. Un anno dopo si aprì, per lui, anche l’Olimpo di Parigi: vinse il Tour de France e i francesi lo soprannominarono “Le pedaleur de Charme”. Sì, perché Hugo Koblet non è famoso solo per i suoi successi ma anche per quel suo modo elegante di andare in bicicletta, per il suo fascino che lo faceva somigliare a un James Dean su due ruote. Durante l’undicesima tappa del suo Tour de France, da Brive ad Agen, Hugo decise di andare in fuga al trentaquattresimo chilometro. Dietro di lui, per tre ore, gli uomini di classifica tentarono invano di riprendere lo svizzero. Né Coppi, né Bartali, Bobet o Robic ce la fecero: sfiniti, piegati sui loro manubri, con le facce sfigurate dallo sforzo, dovettero arrendersi alla superiorità di Koblet che arrivò con due minuti e trentacinque secondi di vantaggio. Dopo aver tagliato il traguardo, come sempre, come un personaggio da romanzo, tirò fuori il suo pettine, si sistemò i capelli e, rilassato, disse ai giornalisti: “Sono andato in fuga per sbaglio: c’era una piccola salita e mi sono ritrovato in testa. Quando mi sono voltato mi sono accorto che non c’era più nessuno”.
Ma la signorilità non è solo questo: Pierre Chany ricorda che, proprio durante il Tour del 1951, in una giornata di gran caldo, Koblet, rimasto senz’acqua, ne chiese un po’ a Gino Bartali che, poco sportivamente, la gettò a terra, piuttosto che passarla al rivale. Forse un gesto del genere non gli avrebbe risparmiato parole poco gentili ma lo svizzero non disse nulla e restituì l’offesa nel più cavalleresco dei modi: durante la cronometro Aix – Les – Bains – Ginevra, lo doppiò. Passando accanto al toscano e accorgendosi che non aveva borracce con sé, prese la sua e, senza una parola né uno sguardo, la mise nel portaborracce dell’uomo che, pochi giorni prima, gliel’aveva rifiutata.
E’ vero quello che diceva il nonno. Signori si nasce, forse anche ciclisti. E mi piace pensare che, per un ciclista, un colpo di pettine sia proprio come stringersi uno scarpino, allacciarsi il casco o sistemarsi la cerniera della divisa. Un gesto umano, naturale, quotidiano. Un gesto che nasce con loro e si portano dietro per sempre.
Grandissimo!