C’è il Capitano che, quando si abbassa a fare il gregario, quando piega la testa e si mette a lavorare per gli altri, lucida con il sudore la sua immagine. E poi c’è il gregario. Solo questo. Quello che, forse, della vittoria, non ne conosce il sapore. Chi dice, chiaramente, oggi: “Io faccio il gregario”?. Sì, è un mestiere di moda, forse più che essere Capitano, stuzzica la fantasia dei giornalisti, l’occhio dei fotografi. Ma, alla fine, nessuno vuole ammetterlo perché, dopo il primo corridore che passa sulla linea bianca, la corsa è finita.
Ma Giacinto Santambrogio si è sempre classificato da solo. Forse anche quando i suoi seregnesi che l’avevano visto crescere e salire sulla bicicletta, volevano chiamarlo campione. Poteva esserlo, Giacinto. Poteva vincere il doppio. Avrebbe potuto portare a casa un Mondiale. Sì perché le storie su di lui sono tante e qualcuno parla di “talento sprecato”. Ma a Santambrogio piaceva fare qualcosa che, a parole, fa tendenza: aiutare gli altri.
Giacinto Santambrogio nacque a Seregno, in Brianza e si innamorò della bici, rubandola al fratello Fausto che se l’era comprata con i suoi risparmi: una Bianchi che, allora, costava ventimila lire. Poi un macellaio si accorse della passione del ragazzo per le due ruote e, a quindici anni, Giacinto si iscrisse alla storica Salus Seregno e, da quel momento, non si fermò più. Da professionista entrò alla Molteni di Giorgio Albani e affiancò Eddy Merckx. Poi la Salvarani e l’incontro con Gimondi. Valse, per loro, la legge degli opposti: andavano d’accordo anche se avevano caratteri completamente diversi. Uno serio, preciso e l’altro un po’ menefreghista, un po’ avverso alle regole della vita da buon ciclista. Andò avanti così una carriera a due, insieme. Santambrogio il gregario e Gimondi il campione. Tanti si dicono che campioni potevano esserlo entrambi. Ma Giacinto non ebbe rimpianti: qualche vittoria la conquistò, qualche soddisfazione se la prese. E responsabilità poche, perché non ci era tagliato. Anche se la determinazione non gli mancava, era questa che non gli faceva mollare la presa nelle grandi corse a tappe: non si è mai ritirato, non le ha mai abbandonate. Ed era la stessa determinazione che, forse, gli fece dire che no, non aveva rimpianti. Perché lui, alla fine, era un gregario e non si strappava via quel nome che è fatto di tanto sudore. Gli piaceva, era cucito addosso a lui, della sua misura: era nato per aiutare gli altri. Era un modo per ripagare, come se quella fatica regalata ai compagni fosse un “grazie” a tutti quelli che, nella vita, gli avevano dato una mano. A suo fratello che gli aveva lasciato la bicicletta frutto dei risparmi, a chi lo aveva messo su una bicicletta e, forse, anche a chi, con degli sgarbi, gli aveva insegnato a mandare giù l’amarezza.
Giacinto è scomparso pochi giorni fa. Se ne è andato così, improvvisamente, come il getto della doccia fredda sulla pelle rovente del ciclista, dopo una gara. Nessuno ha suonato la campanella. Non ci hanno avvisato che, quello, era l’ultimo giro. Resta la convinzione che lui sarà sempre tra di noi, tra chi ama e ha amato il ciclismo. Resta sempre con i suoi seregnesi e con tutti i brianzoli che hanno tifato per lui. I brianzoli come il mio bisnonno che, per vedere la corsa di biciclette che passava una volta all’anno, prendeva le sue scarpe e non contava i chilometri di strada da percorrere per arrivare là, dove tante ruote passavano veloci. Così. Con l’affetto che il ciclismo ci ha comunicato, con la semplicità che questo sport ci ha insegnato.
Giacinto, sei un grande