Sabato
E’ quasi l’una di notte e due persone all’angolo parlano arabo tra di loro. Fuori dal parcheggio sotterraneo le strade di Alicante sono deserte, bianche e lucide come le pavimentazioni delle strade di qui. Una manciata di sabbia negli occhi dei turisti per illuderli che si può bere, giocare per perdere soldi e andare a puttane tutte le notti senza chiederti neanche chi sei o cosa stai facendo.
Mentre dormo, sento The Sound of Silence che viene da chissà dove come una strana allucinazione.
Capisco che l’Iraia ha lasciato un podcast di Spotify acceso, come sempre.
Hello Darkness, my old friend.
Non abbiamo il metodo per interpretare le visioni, è questo che penso a colazione mentre il mare è uscito dal buio ed è una striscia blu e netta dietro alle palme.
Il circuito di Benidorm è lo specchio delle città di qui, praticamente costruito sul deserto. Un bosco che in realtà è una macchia mediterranea e secchiate di quella famosa sabbia presa forse dalla spiaggia per far sì che tutto sembri un po’ autentico. Alla fine è come nella vita, sai che ogni illusione costa e paghi solo tu. Ma se questo non è un tracciato che parla di ciclocross, sicuramente è uno dei promemoria preferiti che ti scrive il ciclismo su post-it casuali. Correre, più veloce di tutto, più veloce del resto. A tutta per un’ora, per dimenticare il dolore, per non farsi più inseguire dalle ombre.
Guardo lo skyline dei grattacieli bianchi che si affacciano sul mare e non riesco a godermi niente, conosco questa sensazione. Aspettare così tanto e non sentire l’intensità del presente, vederlo scivolare via pensando solo all’ansia del futuro o ai demoni del passato.

È già buio quando mi accorgo che mi sono scordata l’acqua in macchina. Esco e un magro gattino di strada mi passa davanti. Lo chiamo e lui si ferma immobile tra due palme, solo un secondo prima di scappare via di nuovo nel nulla. Chissà se soffrono di più per la fame o per quella sensazione di non avere nessuno che li coccoli o che si interessi di loro.
Che l’omino della sabbia soffi ancora sui vostri occhi stanotte, piccoli zingari senza padrone e almeno vi faccia fare bei sogni mentre lo stellato cielo della Costa del Sol si incurva sopra i vostri musi diffidenti e tristi.
Domenica
La gente addenta a grandi morsi panini illogici con un chilo di salsa e chissà cos’altro dentro. Il ciclocross è in città, direbbe un gitano qualsiasi mentre affigge i suoi cartelli ai lampioni. La gente si disperde sul circuito, qualcuno ha portato il pranzo, le birre, i cani, i bambini. Sento che la domenica è lievemente più sopportabile, con le voci di tutto il mondo intorno e la polvere che si alza a grandi macchie bianche ovunque, come se fosse estate.

Non gliene frega niente di come, quando e perché, hanno fatto sold out per vedere Van der Poel e Van Aert come ad una gara di macchine. Loro fanno così fin da bambini, sanno che le persone hanno fame di spettacolo e glielo offrono su un piatto d’argento, sono cresciuti con l’attitudine di dare tutto, di fare il fuori stagione come se fosse luglio e stessero alla tappa regina del Tour de France. Se esiste un dio del ciclismo, è così che premia i suoi figli, dimostrandogli che il sacrificio costante non è mai una perdita di tempo, che la devozione non è sprecata. Come si dice, lacrime e fame sono segni che sei ancora vivo.

Sento male al tendine, ho una ferita aperta e la calza ci si è attaccata con il sangue. Alla fine è così, siamo sempre più abituati a gestire il dolore piuttosto che l’amore che ci coglie impreparati, stupidi, fragili, impotenti. La piaga si apre altre cento volte, di nuovo sanguiniamo senza che nessuno se ne accorga.
Il primo giro è un colpo di pistola nel buio, tutti contro tutti e loro tre a sfidare sé stessi. Quando Pidcock sorpassa Van Der Poel come una moto, si alza un boato. Il cross è la parte feroce di questo sport, un coltello che scava più a fondo del fondo, guarda le parti scoperte come farebbe un chirurgo, con fredda comprensione medica, dice cosa fare per guarire e io come sempre non lo ascolto, faccio di testa mia. Permetto alla polvere di entrare di nuovo nelle ferite, di fare peggio, di stare peggio.
Vedendo la marea di gente che li incita ad ogni giro, riesco solo a pensare a quanto si sentirà la solitudine dopo, quando tutti torneranno a casa, pensando alla cena o a chissà cos’altro e tu hai quella solita sensazione di non appartenere a nessun posto preciso.

Mentre guido verso Elche c’è il solito pulito tramonto del sud che delinea i contorni delle rocce nere come in un canyon. Uno di quei cieli che forse avrebbero guardato con pura contemplazione gli hobo americani nei loro lunghi viaggi abusivi sui treni merci. Improvvisamente si stagliano le luci di un lunapark, stranianti come può esserlo solo un parco divertimenti in mezzo al completo deserto.
Penso a come sarebbe bello guardare il tramonto spegnersi in un luogo fuori dal mondo, senza la maledetta paura che chi ami sparisca da un secondo all’altro.