“Più il blu diventa profondo, più richiama fortemente l’uomo verso l’infinito, risvegliando in lui il desiderio del puro e, infine, del soprannaturale.”
(Wassily Kandinksy)
Corso Como è deserta, il sole sfavilla sulle sedie impilate della domenica mattina. Un cartello dice timidamente “brunch” ma Milano è ancora immersa nel sonno profondo delle sue notti brave. Nessuno è bravo a dimenticare come lei. La città dei miracoli è anche quella del perdono, che ti fa chiedere scusa per esserti scordata un mondo immenso solo per guardare alle piccole stupidate senza importanza. La città che ti converte, se sei bravo abbastanza a sentire le voci nel casino, nella gente che ti corre in faccia e non ti guarda mai – per fortuna – è così che impariamo quanto può essere intenso un solo sguardo. Una pennellata di colore su un’esistenza che vola via. Materia sull’inconsistenza.
Beh, mentre Milano dorme ancora, io ho bisogno di fare qualcosa di strano e anacronistico, tipo infilarmi in un cinema alle undici del mattino e aspettare che la domenica passi, in un modo o nell’altro. Di solito odio l’odore dei popcorn e l’atmosfera triste dei multisala che mi ricorda certi momenti inutili della mia adolescenza ma questo è tradizionale, quasi accogliente, nessuno che mastica o sorseggia la Coca-Cola. C’è un buon profumo. Ho bisogno di questo oggi, l’universo lo sa.
Mentre Caravaggio fa lavare la prostituta annegata nel fiume, mentre compone la scena del suo quadro con i vivi e i morti veri, che piangono e dormono nella verità, mi sento le lacrime agli occhi. Ma perché diavolo sto piangendo? Appena guardo la mano abbandonata della Vergine, faccio un salto indietro di undici anni, chiaro come le visioni delle quattro di mattina. Io in un’aula al terzo piano che dipingo quel quadro sulla tela, quella mano a cui non riesco a dare corpo, il professore – a cui non stavo neanche simpatica, chiariamo – che la tratteggia per me. Quattro pennellate e le ombre perfette, io di nuovo che mi sento totalmente fuori posto. E poi l’odore disgustoso dei colori ad olio; le dieci docce del sabato pomeriggio per togliermi di dosso la puzza della plastilina ammucchiata a chili nei bidoni di plastica; la memoria fotografica che cerca le opere nel libro di arte, chiuso durante tutte le interrogazioni; le righe sbavate del rapido rifatte cento volte, fino alle due di notte. E quella solita odiosa incapacità di fare le cose come erano esattamente nella mia testa.
Quella mano è lì, inerte e stupenda sullo schermo del cinema e mi ricorda perché ho cominciato a scrivere. Caravaggio dipingeva il vero. E quando non riesci a farlo, sei distrutto. Ma adesso che le parole sono il mio vero, posso fare pace con qualsiasi cosa – o quasi. Ora il flusso nella mia mente scorre esattamente lì dove deve essere, come deve essere.
Il mio posto nel mondo per sempre.
Così i chiaroscuri di Arenberg diventano i ritratti evocativi di Rembrant, un volto per metà nell’ombra nera come il carbone e l’altra scolpita nella luce ad emergere come un miracolo. Il Carrefour de L’Arbre in un pomeriggio di aprile si trasforma in un paesaggio di Levitan dalle tinte sabbiose e con quei quattro alberi a segnare l’orizzonte che ti fanno venire voglia di viverci dentro. Le visioni inquiete di Turner delineano la tormenta di polvere sulle colline della Toscana in un giorno di primavera ed è lo spicchio di luna di Magritte a far capolino sopra le case bianche della surreale Andalucia nelle notti d’agosto. Mentre sono i tratti scioccanti, sensuali, intimi di Egon Schiele che delimitano il confine tra terra e cielo sulle Dolomiti solcate dalle nuvole nere, nei giorni in cui la previsione della sofferenza ti apre in due, ti mostra al mondo per come sei, nudo e fragile fin nelle viscere, pronto al dolore o all’orgasmo.
Chiudo gli occhi e vedo solo la mia notte stellata, il blu intenso di Vincent Van Gogh che delinea la meraviglia a dense pennellate materiche. Le larghe e luccicanti onde dell’Oceano dall’alto, la polvere del Carrefour negli occhi e le lacrime nello stomaco, la neve sul Carpegna, pochi istanti che ci ricollegano al big bang dell’universo, vicini senza toccarci mai. Ossido di cobalto e di alluminio. Il blu infinito della contemplazione e dell’intensità che mi fa sentire grata per tutto questo incanto.
Fuori, per la strada, un tipo strambo dice a voce alta e allegra: “Che sole c’è oggi, come si sta bene!”
Ai lobi delle orecchie gli luccicano due anelli dorati, una specie di zingaro che legge i tarocchi apparso dal nulla. Nelle carte, il Sole rimanda alla chiarezza, alla luce. Significa comprensione, gioia, ma soprattutto verità e rivelazione.
Il cartomante sparisce nella folla e io ho come la sensazione che, in qualche modo, mi si siano aperti gli occhi sulla realtà. Come Monet, prometto che continuerò a cercare di rappresentare il modo in cui un uccello canta – dipingendo o scrivendo che sia.
Adesso la notte è di nuovo piena di stelle.
Ciao! Andare in un cinema alle 11 del mattino credo che sia qualcosa che poi ti rimane impresso