La Brianza non è un posto dove nasci e ami il ciclismo. È assurdo farti piacere quei mangia e bevi continui, non puoi neanche uscire a prendere il pane senza tornare a casa sudato come da una maratona a Rimini il quindici di agosto. Che poi – non ci si può neanche lamentare – qui almeno impari dal minuto zero che nella vita, dopo la discesa, ti tocca sempre una salita.
Di contro, la Brianza è il posto ideale per i rally clandestini, con le sue curve strette a gomito che scendono a tornanti nella valli oscure, per poi risalire allo stesso modo in un loop senza fine. Ogni tanto, quando faccio il tragitto per tornare a casa, penso ai drift scellerati di quei babbei con cui uscivo quando avevo diciassette anni o giù di lì: praticamente era l’unica cosa che sapevano fare bene.
Perché essere adolescenti in un paesino di provincia è abbastanza desolante: i ragazzi giocano a chi ce l’ha più grosso con le casse che risveglierebbero i morti e le ragazze escono mezze nude anche a gennaio perché pensano sia l’unico modo per essere notate.
Capisci dopo che sei sexy quando sai farti spogliare con gli occhi e che le casse spesso servono quando sei solo e vuoi che la musica sia più alta dei pensieri.
Ma la competizione, quella forse è l’unica cosa che resta, nel bene o nel male, che continua a rovinarti da cima a fondo. Guardarsi allo specchio venti volte prima di uscire. Non essere mai abbastanza. 
Perdere.

L’altro giorno su Twitter la gente sembrava terrorizzata dal fatto che il sole stesse perdendo un pezzo. Si spegnerà, dicevano. Siamo così ciechi da non vedere nemmeno che abbiamo già lasciato spegnere la nostra Stella, senza motivo, senza spiegazione.
In realtà, questo processo che ci sembra terrificante per il nostro futuro da parassiti sulla Terra, è una cosa normale che avviene ciclicamente, ogni undici anni. 
Questa è la mia undicesima stagione nel ciclismo, dovrei essere grata e dovrei essere felice eppure mi sento esattamente come un sole che perde i pezzi. Com’è che ci si sente? A sapere che è tutto normale ma a soffrire comunque. Cosa pensa quella rossa palla infuocata distante miliardi di miliardi di anni dei suoi piccoli frammenti che ora vagano da soli nello spazio? Le cicatrici scrivono una storia alla fine oppure sono solo segni del tempo, come quelli che fanno i carcerati sulle pareti delle prigioni, che servono a contare le ore da qui alla fine?

Fa così il ciclismo, ti insegna nello stesso modo dell’uomo con il maglione rosso del Richiamo della Foresta di Jack London. Un maledetto bastardo figlio di puttana che risveglia in Buck la resistenza alla morte, all’odio, al dolore. Non si dovrebbe crescere così e invece succede.
Le volte in cui ho perso pezzi di me le ricordo tutte, in scene frammentate: bicchieri pieni di ghiaccio che scivolano a terra d’improvviso, il mondo che si ferma solo dentro di te, e il resto che va avanti, come un fottuto criterium a velocità folle e tu sei brasata sull’asfalto senza che gli altri possano vederlo. Ti alzi, sanguini da matti. Nel ciclismo non si perde, nel ciclismo si impara dicono. Ma alcune lezioni semplicemente non servono a niente. 

Guardo l’orologio, sono le undici e undici. Dicono che è così che avvengono le illuminazioni, dicono che è così che parlano gli angeli.
Ma come possiamo sentirli ora? Che siamo soli, imprigionati in queste notti, dove vorremmo perdere il controllo nelle curve, solo per vedere se possiamo seminare la delusione e la nostalgia una volta per tutte.  

Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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