Li chiamano topi con le ali” dice. “Ma la gente non ha idea di quanto siano intelligenti”.
In pratica il tipo della pasticceria ha addestrato un piccione che tutti i giorni, alla stessa ora, estate e inverno, sole o neve, si mette davanti alla sua porta per avere un biscotto. Pure oggi il pettoruto volatile sta lì, a sbirciare nella vetrina mentre fuori il mare è frustato senza sosta dal vento. Io lo capisco, certe abitudini sono come la grappa nel cioccolatino, la crema nel bombolone, il bombardino quando fuori nevica.
Il piccione lo sa che, comunque sia stata la sua giornata, quel tipo grande e grosso gli darà un biscotto e forse glielo sbriciolerà pure per farglielo mangiare più facilmente. Noi invece non abbiamo niente che sia certo. Un giorno ci alziamo e quel biscotto non c’è più, tutto qui. 

La nebbiolina bianca sull’orizzonte si sta inghiottendo l’isola mentre i tronchi decapitati delle mimose morte fanno capolino dalle curve. Sulla strada che sale al GPM non c’è praticamente nessuno, gli alberi di limoni occhieggiano come sempre dai giardini, fanno del litorale una poesia continua, persino in giornate come queste dove in bici neanche ci usciresti, figuriamoci fare una corsa. Ma al ciclismo non gliene frega niente, di te, del tempo, del freddo, della gente o di qualsiasi altra cosa che non sia legata alle sue stupide ed incoerenti leggi. La pioggia scende sottile e tagliente, non la senti finché non ti ritrovi fradicio e capisci che è troppo tardi. Un giro, nessuno che attacca, il vento che piega la macchia mediterranea abituata alle miti giornate di sole invernali. Due giri, gruppo compatto. Tre giri, un pazzo che si prende un minuto su tutti. A fondo devi scavare, ancora più a fondo dove neanche pensavi di arrivare.

Al traguardo tutti pensano a scattare una foto con il cellulare, anche sfocata, va bene lo stesso. Normalmente questa cosa mi fa incazzare ma oggi improvvisamente ho un punto di vista nuovo e ho una perfetta visione della compassione umana – credo sia tipo un regalo alla Kerouac, questo. Alla fine, è sempre nei momenti in cui siamo terribilmente delusi da tutto che riusciamo ad essere così ricettivi per vedere brillare intensamente le piccole cose che giacciono sul fondo marcio delle discariche.
La gente scatta le foto, si prende un istante del tempo che se ne va. Siamo così inadatti a vivere nel presente.
La manciata di corridori che supera la linea bianca è scossa dai brividi. In giorni come questi – e in molti altri – alla bicicletta vorresti solo dire vaffanculo. Ma poi il resto prende il sopravvento, amore e dolore si  mescolano fino a non potersi distinguere più. 

Mentre torno a casa, piccole luci appaiono qua e là a intermittenza, il vento le rende fiammelle inquiete, segnali dall’altro mondo. Il mare adesso è una nera bocca pronta a inghiottire qualsiasi cosa. Penso ai relitti delle navi intrappolati per sempre sui fondali. Niente più luce, niente più vita, freddi scheletri di quello che erano.
Raffiche di vento frustano i viadotti immensi.
In certi punti, il mare è troppo buio per poter tornare in superficie. 

La nave Andrea Doria, costruita nei cantieri Ansaldo di Genova, naufragò una calda sera di luglio del 1956 al largo delle coste di New York dove si trova ancora oggi. La carcassa dell'imbarcazione considerata come la più bella del mondo giace a 75 metri di profondità, in un punto particolarmente buio e tormentato da forti correnti che hanno reso praticamente impossibile il suo recupero. 
Posted by:Miriam

Nata in Brianza, nella calda notte del 30 luglio 1991. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

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