Il cruscotto della macchina segna nove gradi, la strada deserta disegna ampi respiri su queste colline che hanno lo strano colore delle crete senesi, gialle qua e la nel deserto azzurrino delle otto. Freno all’improvviso: c’è un capriolo sul bordo della strada, mi fissa immobile per un paio di secondi. Forse vorrei prendere il telefono, fare una foto che ne so, ma sono totalmente paralizzata per l’incanto di quell’istante che non riesco a muovere un muscolo. Nel grigio, brumoso, mattino, lui zampetta via e poi si ferma ancora a guardarmi da lontano, come farebbe un dolce guardiano. Mi aspetto che sparisca come una visione e invece resta lì, anche quando riavvio la macchina e continuo a salire verso il crinale ventoso dove i bianchi camper stanno là in fila come picchetti. Nella pungente aria gelida si sente l’odore delle griglie, la dance italiana di Dj Matrix e un sacco di altre cose che mi hanno sempre fatto stare bene. Ma oramai lo so che il ciclismo è così, ti fa sentire a casa anche quando non sei a casa, ti illude che quello è il tuo posto nel mondo e poi ti fotte. Adesso non lo so più dove sta la verità e dove la bugia.
Le bandiere sventolano in uno scenario da cartolina, nessuno potrebbe pensare che appena fuori da una città si possano aprire queste colline ondulate, nessuno avrebbe potuto pensare a qualcosa di meglio per tentare di salvare una stagione a dir poco disastrosa, con la costante ombra della pandemia e di una fame ossessiva e insana di correre come dei pazzi appena usciti dalle gabbie. Ma non importa, grandi sforzi a parte, il Mondiale resta una di quelle corse che ti addormenti al primo giro per poi svegliarti (forse) all’ultimo, è inutile nascondersi dietro un dito. Le ore passano, la gente beve e mangia per passare il tempo, beve soprattutto, il maxischermo trasmette le classiche immagini del gruppo che occupa tutta la carreggiata, nuvoloni neri corrono sopra i vigneti ma il temporale è lontano. Non piove e non c’è il sole, una luce incompiuta che non è buona neanche per le foto.
All’una mi siedo a mangiare con il fan club di Marco Pantani e di nuovo sembra tutto come in un pranzo di famiglia della domenica. Mentre un cane mi scodinzola intorno, arriva Silvano – che è una specie di Doc di Ritorno al Futuro – con la sua Specialized truccata con un motore da mille euro che ha installato personalmente e con il quale smerda tutti gli amatori deluxe del circondario. Ci son molti modi per divertirsi a settant’anni, a quanto pare. Si radunano tutti attorno a lui che, a cavallo di quella specie di razzo autoprodotto, racconta delle mirabolanti invenzioni che ha brevettato nella sua vita, di come ha costruito il suo trattore personale, di quante volte ha cambiato lavoro perché si annoiava di fare sempre le stesse cose. Insomma un genio a cui ognuno di noi sarebbe tentato di chiedere se nel suo garage, per caso, ha anche una macchina del tempo – non si sa mai. Mentre il liquore zuccheroso alle visciole mi scivola giù nello stomaco penso che forse, anche tornando indietro, saremmo così cretini da rifare le stesse cose, nello stesso modo. Ma è giusto, in fondo persino Doc e Marty hanno imparato che modificare il passato non è mai un’idea geniale.
Gli scatti ai piedi della salita infiammano la gente incollata alle transenne degli ultimi cento metri del GPM, un tipo con la maschera da unicorno ha scritto sul collo con un pennarello: “Unicorns are real” e qualcuno canta Su di noi nemmeno una nuvola. Invece le nuvole si ammassano sopra la corsa in questa landa desolata, grigie come le gambe dello scatto sopra l’asfalto, i tendini che il ciclismo piega a suo piacimento, a seconda di tutto quello che vuole dire o non dire. Corro giù per la montagna per riprendermi la macchina prima che tutti questi pazzi intasino la strada. Sento i boati dei tifosi che salgono a sprazzi dalle creste pettinate dal vento e subito la mia testa va alla gente che esulta per un goal di Balotelli che segna in un sonnecchiante pomeriggio dell’estate 2011. Io e mio fratello eravamo in vacanza, sulle colline fiorite di buganvillee della Liguria. La testa è strana, le cose surreali non te le dimentichi.
Comincia a piovere, le gocce rotolano giù dal finestrino, le luci di Imola si accendono come lampade senza nessuna speranza. Apro il wallet dove tengo i documenti, c’è la foglia a forma di cuore che ho trovato ieri su una panchina, il vento l’aveva portata lì da chissà dove. Il Ginko Biloba lo piantano i giapponesi vicino ai templi, allontana gli spiriti maligni ed è l’unico albero ad essere sopravvissuto alla bomba atomica. Rimasto intatto dopo l’apocalisse.
Dalla piaga di questo silenzio ti chiamo nell’uragano.
Guardo la foglia: è ancora verde, non si è seccata come avevo pensato.
Quando la sfavillante facciata dell’illusione cadrà, ancora troverai la mia ombra per la tua pace.
Rimetto quella specie di segnale da un altro mondo al suo posto, quello che è puro va sempre protetto.
Che il vento porti sempre la mia foglia di Ginko fino a te.