Piccoli stormi di moscerini veleggiano sopra i vigneti. C’è quel tipo di azzurro che i romanzi inglesi definirebbero cielo italiano e ho un mal di testa perforante probabilmente dato dal fatto che ho dormito quattro ore e che ne vorrei dormire altre dieci. La linea bianca corre lungo il rettilineo fino a là in fondo, il circuito è abbastanza lontano da non sentire quello che non voglio più sentire, abbastanza lontano da tutte le volte in cui non mi sono sentita al posto giusto – cioè praticamente sempre – in un posto giusto per me, intendo. Forse non vediamo mai abbastanza le cose da vicino. L’asfalto è diverso quando stai seduto a bordo strada ad aspettare la corsa, sale il respiro granuloso del catrame fatto a pezzi qua e là dalle automobili o dal sole, dalla neve o da chissà cos’altro, esattamente come capita a noi. Quando dico che il ciclismo mi ha dato molto, ci credo per davvero anche se comincio a pensare che quello che mi è sempre sembrato un regalo sia soltanto una bastonata sui denti. Ho sbagliato tutto?
Il vento fa strani ghirigori sulle nuvole, scuote le betulle bianche nel sole di settembre, folate improvvise e poi la quiete. Grida e poi sospira e poi tace.
Passa il primo corridore piegato sulle appendici, porta uno scroscio di pioggia improvviso, ancora il vento gioca con le nuvole. Dice cose che non so, esattamente come qualche tempo fa, prima che succedesse qualcosa di bello davvero. Chiusa nella mia di bolla, non riesco a pensare assolutamente a niente. La campagna è quieta, un cane abbaia lontano, il cielo è nero e il sole brilla sull’asfalto. Non ti accorgi mai di quanto vadano veloci, tu scatti e basta, il tempo non è facile da misurare a sensazioni. Ma Filippo è andato più veloce di tutti.
Mentre cammino lungo la strada che costeggia il circuito il vento porta l’Inno Italiano in lontananza, il podio sembra per un secondo vicinissimo, come quando nevica e le distanze si accorciano. Adesso tutti faranno a gara a conoscerlo, si sa come funziona in queste cose, diventi qualcuno e a volte non ti accorgi che la gente si interessa a te solo per quel motivo. Ma è bello sapere che lui adesso non sta pensando a questo e a nient’altro che può toccare un ragazzo che ha lavorato come un dannato senza guardarsi indietro, senza sentire scuse, banalità o critiche da divano. Abbiamo vinto, dicono le persone a bordo strada. No cazzoni, basta prendervi meriti inutili. Non avete vinto voi, ha vinto lui.
Là fuori scende un tramonto freddo, il vento continua a scuotere le chiome dei gelsi che vegliano i pioppi in questo deliziosa casa di campagna che ha qualcosa come trecento anni. L’orizzonte piatto è interrotto laggiù in fondo dal palazzo dell’ex Mercatone Uno, con l’erba che cresce nel cortile al ritmo malinconico di una leggenda che non vuole sparire mentre la biglia gigante con Marco Pantani che attacca resta lì, come ad aspettare che un bambino la faccia ancora rotolare nella sabbia. La verità è che non abbiamo mai giocato, mai neanche una volta. Abbiamo preso sempre tutto così seriamente e seriamente siamo rimasti delusi.