Le Vespe 125 Primavera parcheggiate all’ombra, l’odore della frutta matura cotta dal sole, i vecchi incollati alle loro sedie di vimini davanti a tavole imbandite di damigiane di vino ghiacciato, le birre al fresco riposante dei frigo bar trascinati in cima dalla gente a torso nudo e Gigi Dag negli altoparlanti, perso nelle colline immerse nel silenzio domenicale. Salendo per La Rosina mi rendo conto di quanto sia facile dimenticare l’esistenza dell’inverno – o semplicemente del freddo – in giornate come queste, quando l’asfalto è rovente ma un’aria lieve passa tra le foglie dei pioppi bianchi rendendoli argentei.
Esistono giorni in cui ti sembra impossibile che sia esistita la felicità o la tristezza. Giorni in cui lo sai benissimo che quel puzzle da cento pezzi è incompleto se è proprio il pezzo centrale a mancarti.
Eccoli lì i tre ragazzini che confabulavano sulle scorciatoie da prendere per arrivare su, mi salutano come se fossi una loro amica, sono gasati e io li ammiro, hanno ancora quell’abitudine di amare le cose intensamente senza sapere cosa può succederti se continui a farlo. Al primo giro sono folgorata dalla media, di nuovo in anticipo, come se dovessero correre contro il tempo prima che contro loro stessi. Al secondo giro finisco l’acqua nella borraccia, al terzo un bambino sventola il tricolore su un pianoro di olivi, al quarto desidero ardentemente una Coca-Cola ghiacciata e al quinto un tipo mi dice che quando ti alzi sui pedali vuol dire che sei finito. Il vento piega dolcemente gli alberi come una carezza, come una risata. Quando ti alzi sui pedali succedono miracoli, di quelli che non ti scordi più. Restano scolpiti come un segno, come un monito. Mentre fanno il sesto giro, da qualche parte, tintinna una campana a vento: dicono che abbia il potere di dissolvere l’energia negativa e i ristagni, è un suono dolce, come tutte le cose che in un attimo potrebbero rimetterti a posto con il mondo, spianarti le rughe, far tornare il luccichio negli occhi, annullare il nero che ha coperto la luce.
L’aria soffia attraverso le vie di Cittadella, una città fantasma dentro le mura con i negozi chiusi e le bandiere gonfie sulle torri merlettate e il fossato che scorre placido e rotondo. Poi, sul rettilineo d’arrivo, un branco di gente invade la strada come degli spaventosi gnu che corrono imperterriti attraverso la Savana. Per fortuna – a differenza del deserto – qui ci sono delle transenne dove aspettare la volata sfrecciarti davanti ancora per metri e metri come una stella cadente. Devi essere il solito centometrista per inseguire il corridore e io sento il fiato della Brianza alcolica dietro, che corre verso il suo campione. Per arrivare fino a qui, da quel magico e indefinito luogo a nord di Milano, sono tre ore secche: partenza all’alba e ritorno al tramonto, ma è come se loro già lo sapessero, avevano persino preparato lo striscione. Lo travolgono mentre da fuori la sicurezza gli ricorda della bolla. Sono pazzi ma – state tranquilli – son congiunti e Dio solo sa come e quando torneranno a casa. Due gabbiani bianchi volano sopra il cielo nero che preannuncia il temporale. Anche oggi è finita.
Sull’autostrada il sole è un cerchio rosso di fuoco dopo la tempesta improvvisa mentre al telefono mi raccontano gli istanti della volata. Puoi star sicuro che il ciclismo non ti perdona niente, nessuno sbaglio, nessuna distrazione, nessunissima cazzata. Le campane a vento tintinnano dolcemente nel silenzio assordante che ha ribaltato tutto.
Prima o poi qualcuno le ascolterà.