Si apre di colpo la finestra del bagno, sono le sei e mezza e mi sveglio per richiuderla, fuori la pioggia si accanisce sulla Riviera e gli ululati del vento sembrano voler buttar giù le pareti mentre sento il dlin-dlon dell’annuncio del treno là sotto che ho scambiato già dieci volte per un ascensore immaginario. Nessun ascensore, nessun piano, mi riaddormento con i lampi che entrano nella stanza come codici morse da un altro pianeta. La tempesta mi fa sempre sentire al sicuro.
Quando mi sveglio il cielo è screziato di azzurro, mangio in due morsi un bombolone alla crema e guardo la folgorante bellezza degli ulivi scossi dal vento mentre incrocio i pullman che vanno verso Castrocaro, incorniciato dalle mura e dai suoi cipressi scuri e muti. Ai bambini che guardano i ciclisti non gliene frega niente se questi hanno mai vinto qualcosa o fatto grandi tour in giro per il mondo e io li capisco: il palmares conta ma solo se non ti vendi l’anima per ottenerlo. Una signora esce dalla porta di casa, elegante come per andare alla Messa delle dieci, ma si prende una sedia e resta a guardare le squadre passare come una funzione. Come diamine siamo arrivati a questo punto? Ad amare senza condizioni, a farci fregare, a restare con un pugno di mosche in mano una volta che la carovana va per i fatti suoi.
Mentre la corsa fa i suoi cinque giri attorno al paese, comincia a piovere a dirotto, guardo il gruppo dal finestrino della macchina, l’acqua gli leva i contorni. Non ho voglia di prendermi neanche una goccia oggi, non ho voglia. Per una volta potrei anche restare asciutta. Per una volta. Non salgo a Montevecchio, torno indietro fino a Cesenatico, ho solo voglia di mangiare qualcosa. Il tipo della piadineria mi chiede a che ora passano, io gli dico che non lo so, l’unica risposta che mi sembra più plausibile ultimamente. Passano tre ore prima che il gruppo arrivi sul lungo rettilineo di via Carducci, una scia contro il lunapark abbandonato nel sole, con gli scivoli colorati senz’acqua, le piante finte che ondeggiano come serpenti di plastica in testa a una Medusa. I giri durano come un caffè al bar e alla fine Felline vince la volata e non ci crede neanche lui, un po’ come se fosse uno di quei sogni che fai in spiaggia, sbronzo dalla sera prima. Si abbracciano vegliati dal grattacielo laggiù in fondo, surreale come le cose che spezzano gli orizzonti e poi finisce che ci fai l’abitudine, ti fanno pure pensare che sia bello.
Fuori dall’autostrada stracolma di automobili ferme, la strada è liscia come l’olio e il tramonto dipinge una luce dorata e drammatica sulle cascine sperdute nei campi gialli sotto il cielo scuro.
Apro Spotify. Ogni volta che ascolto questa canzone penso a Marco Pantani che la canta, quasi mi sembra che quella voce sia sua. Ma adesso tutto è distante dai contorni reali.
Gente di mare, che se ne va
Le nuvole si sfilacciano nella sera come ali. Forse arriverà un momento in cui ci diremo che non valeva esattamente la pena sprecare la bellezza dei giorni a inseguire cose invisibili.
Dove gli pare
Una fila di neri panni stesi sventola tristemente nell’ultimo sole.
Dove non sa.