Non ci sono che colline fino all’orizzonte quasi bianco sul cielo azzurro dove l’aria ha rastrellato le nuvole fino a farle diventare invisibili. C’è l’odore degli arbusti seccati dal sole in alta montagna, bacche rosse lucide che guardano la scarpata dove sprofonda la valle vegliata qua e là dai pini.
E’ facile immaginare com’era questo posto prima. Senza scritte, senza la foto di lui a mani basse, con quell’espressione di uno abituato a dare tutto per tutto, senza il suo fan club che ancora lo aspetta alla fine della salita. E’ facile immaginare perché questo posto sia stato scelto: quando vedi le curve come schiene che salgono improvvise e secche, capisci perché Marco Pantani volava esattamente quando la strada dava il peggio di sé. Nel punto peggiore lui faceva il miracolo.
L’asfalto in certi punti è nero come il buio, nuovo, sfrigolante nell’ultimo vero sole di settembre e in certi altri è ancora spaccato a metà, chissà se è stata la neve – nevica qua d’inverno? – o il tempo. Buche, solchi profondi come vecchie cicatrici di una strada che fa pensare solo al silenzio. Di quando sei lontano da tutto, a pedalare da solo, a cercare di sentire la corsa quando la corsa non c’è. Ti accorgi che il dolore è come l’amore: resta la cosa più vera che esista. Che poi quello in bicicletta è un’altra cosa, lo capisci che ti serve come l’acqua, puoi persino pensare di attaccare quando sei all’apice, quando lo sai che gli altri la tua soglia non la possono superare. Risorgere dalle curve a mani basse, una cosa quasi semplice quando la strada sale d’improvviso, un po’ meno quando tutto è in discesa e non sai neanche come frenare. Così penso a quando i riflettori si spengono d’improvviso, guardando una scritta cattiva e idiota sul guard-rail vicino a cespugli pieni di bacche che sembrano mirtilli. Nessuno li ha mai raccolti, di sicuro sono velenosi. Così penso a quello che rimane, alle parole che vorremmo sentirci dire o che vorremmo tremendamente dire. Alla paura che la mancanza duri per sempre.
Passano i fuggitivi, passa il gruppo e poi quelli che oggi sono stati fregati dalle prime rampe al quindici per cento della salita, dispersi tra le onde di colline infinite che la salita domina di metro in metro. E’ un posto per meditare questo o per pregare, come tutte le montagne che in un attimo ti portano fuori dal mondo, popolate dai trattori o dagli spiriti del bosco. I fuggitivi lo sanno che forse non servirà a niente, che il circuito di Cesenatico ti mangia le gambe più di una salita, che i minuti diventeranno una manciata di secondi esattamente nel modo in cui il vento porta le nuvole sulla costa in una giornata di bel tempo. Ma dare per scontate le cose è uno degli errori che facciamo più spesso.
Su al GPM c’è una fontanella, riempio la mia bottiglia d’acqua e la porto a valle, come un amuleto o come una benedizione. La strada che riporta verso il mare è una falsa discesa, una lingua di asfalto tortuosa, tra curve e incroci, che riprende a salire quando meno te l’aspetti.
Una strada fatta per quelli come te, che lo sanno benissimo cosa devono fare quando non si hanno certezze, che il ciclismo ha un unico, solo respiro: attaccare, attaccare, attaccare.
Così, il mio amore incondizionato.
Qualsiasi cosa accada.