Piove da due ore, la corsa è ancora lontana, persa nelle campagne dello Yorkshire avvolte dalle nuvole, nel glaciale mezzogiorno dove i deserti castelli diroccati hanno ancora il lieve inquietante sospiro di chi lì dentro ci ha vissuto, amato, perso, odiato, corrotto, sperato. Corrono lontano da qui, sulle strade diventate fiumi mentre ancora i chilometri da fare hanno tre cifre.
Credo di essere stata intelligente a portare gli stivali da ciclocross, un po’ meno ad aver sbagliato i calzini, ma lungi da me essere troppo preparata alle cose. Le pozzanghere riflettono il cielo bianco, la gente ci cammina dentro, io chiudo gli occhi per un secondo e ripenso a un altro giorno identico, la pioggia che ti entra dentro le ossa, ti scava la faccia, ti succhia tutto quello che hai. Visioni su visioni.
Metà della gente è chiusa nei bar a fare condensa sui vetri con i loro cappuccini bollenti, gli olandesi hanno fatto la loro curva con la faccia di VDP sull’asfalto e una tenda piantata nel fango viscido e denso come il miele e io ho in mente una canzone di Frank Sinatra da quando mi sono alzata dal letto (in coma) stamattina alle sei e un quarto ma non so neanche perché. E’ famosa ma di sicuro non l’ho sentita neanche una volta in questi giorni: a volte succede, mi sveglio con una specie di colonna sonora nelle orecchie e la canticchio pure. Anche adesso sotto la pioggia, in un momento in cui non ti verrebbe da cantare per niente. Non è così la vita?
Extra-ordinary.
Mentre le sirene delle macchine entrano in circuito, penso a tutto quello che è stato fuori dall’ordinario fin qui, fulmini che ti spaccano la vita o te la ricompongono, segnali da altre dimensioni, regali. La pioggia si fa ancora più intensa, le gocce rotolano dagli ombrelli grosse come pesche, lungo la canalina della strada scorre un piccolo torrente: è inverno. Così vedo l’infierire dell’acqua come piccoli aghi impazziti sulla schiena dei corridori al primo passaggio, quando mancano ancora cento chilometri di gara. Una di quelle gare che ti fanno ricordare tutte le volte in cui i tuoi piani sono andati letteralmente a puttane, di quando per fortuna non hai controllato la tua vita e lei è andata per i fatti suoi, in un posto stra-ordinario, chiudendo fuori le bestemmie e le recriminazioni. Chiudendo tutto là fuori, eccetto quello che si poteva tenere alla distanza di un respiro.
Risalgo dove spariscono le transenne, dove sparisce un po’ di gente. Quella che resta è la più stoica che il ciclismo conosca: senza ombrello, con le bandiere fradice incollate addosso, un fiume che gli lava la faccia. Mi muore il telefono e ancora non so che rimarrà ko per le restanti ventiquattro ore nonostante le mie amorevoli cure. Ma adesso c’è una sola cosa che importa ed è la diretta dalla corsa: faccio amicizia – è così che funziona – con un gruppetto di quattro italiani, guardo il live dal quadratino dello schermo che mi sembra minuscolo, che riflette il cielo e una specie di pensilina in un parco appena giù dalla strada. Vedo le sagome, è così che sono abituata a fare. Dicono che scatterà questo e poi quell’altro ma di sicuro fuori di qui nessuno si sta rendendo conto di che diamine di massacro si stia compiendo giro dopo giro. La diretta salta, gli ultimi tre passaggi sono nel buio, guardo le facce di chi ha il coraggio di rilanciare un’azione che non esiste: è la dannata soglia del dolore, non sai mai dove sia, perché sei abituato a spostarla di volta in volta. Sempre più in là, in là e ancora più in là. Ancora più in fondo, ancora di più, ti prego.
Quando scopro che ha vinto Pedersen ripenso immediatamente a quel Fiandre con lo stomaco nella transenna, a sentire il battito della corsa, lui che fila come un missile dietro a Niki Terpstra. Secondo che si volta con la paura di perdere pure il podio, insieme alle occasioni. Ha fatto bene a non voltarsi adesso che è Campione del Mondo quando nessuno se l’aspettava, una di quelle volte in cui nessun piano è giusto se non quello del destino che risalda i suoi conti. Tre danesi ubriachi urlano e cantano e corrono scalmanati verso un podio che sicuramente non potranno vedere ma sentire sì. Ha smesso di piovere e la gente sciama in una luce languida come quella di chi ha pianto, nell’esatto odore che ha il Belgio dopo un ciclocross, un misto di fritto e patatine e terra umida del bosco che si aggrappa alla sera che arriva implacabile dopo una giornata tremenda là fuori. Un bambino entra con tutti e due i piedi in una pozzanghera come in una piscina d’agosto, spezza il confine con l’altra dimensione.