Sull’autostrada Milano-Torino c’è un cielo bianco come l’occhio vitreo di tutte le mattine che ho guardato in faccia senza volermi svegliare. Anche stamattina ho rimandato la sveglia due volte, mi sono girata dall’altra parte e poi mi sono arresa a vestirmi in due minuti e uscire di nuovo. I cipressi lungo la pianura padana sfilano diritti per chilometri, soldatini di un domino immobile. Mi cola il rimmel, cambio canzone su Spotify, mi pulisco una riga nera sulla guancia nello specchio di un autogrill deserto. Forse è in un giorno come questo che l’aereo si è schiantato contro Superga che oggi è avvolta dalle nuvole basse come spiriti lattiginosi che soffiano l’alito dell’autunno su tutte le cose, che isolano la collina fuori dal mondo, come se fossimo in una grande sfera di Natale con le foglie rosse che scendono, di tanto in tanto, come fiocchi di neve sfrigolanti e odorosi.
La salita ti mette in croce e tu non puoi fare altro che sanguinare e andare avanti senza dire una parola: è questo che ti ha insegnato il ciclismo, dalla prima volta in cui sei salito su una bicicletta. Tutto quello che ho fatto quest’anno mi passa davanti come passa il gruppo al bivio dei cinquecento metri: la pioggia, il freddo, i chilometri da sola, il cambio ruote persino, un passaggio in ammiraglia a trecento all’ora per arrivare in tempo al traguardo, tutto per un solo motivo, lo giuro. Uno solo.
Sento l’odore del bosco sopra le schiene piegate degli ultimi, non pensano più alla vittoria, sentono solo il mal di gambe, sentono il sudore freddo colare sulla faccia, l’umido del pomeriggio. Ma niente si vede da fuori, il silenzio dell’ascesa è paragonabile a quello di una chiesa: mille preghiere o forse milioni di imprecazioni ma per il resto niente, nessun rumore placa il profondo baratro di una curva al dieci per cento.
Lo so che adesso sei ancora lì appena fuori dalla linea bianca, sul confine tra l’aver dato tutto e la consapevolezza che non è stato abbastanza. La gente non lo sa cosa succede in quei tre minuti in cui stai ancora aggrappato alla bici per non cadere, in cui sputi l’anima che ti è arrivata alla gola per lo sforzo, in cui senti che il sangue torna a scorrere in maniera normale, che il cuore torna al suo posto. Nessuno lo può sapere che cosa c’è nella bolla che ti mangia la testa dopo il traguardo, quando vorresti che il mondo sparisse o quando vorresti sparire tu.
Superga torna nel suo mistico silenzio, sagoma lontana avvolta nella luce incoerente di un etereo sole apparso all’improvviso. Penso che una volta qualcuno mi ha detto che quando apri le braccia sei sempre più vulnerabile ma non mi importa: è così che stai in croce, è così che rischi, è così che vinci. E poi, è così che ami.