La gente a torso nudo pesca dai cesti con i pain au chocolat caldi, i croissant e le lattine di Sprite che galleggiano in un bidone di quelli per l’acqua piovana. L’acqua è ghiacciata, il sole di mezzogiorno cuoce l’asfalto pieno di scritte che va su all’Alpe d’Huez.
Crescono i girasoli aggrappati alla roccia, gialli come luglio, non li avevo mai visti spuntare così, come papaveri selvatici nelle crepe della strada. Mi fermo in una delle poche chiazze d’ombra, c’è una coppia di piemontesi seduta lì vicino, mi chiedono qualcosa, cominciamo a parlare, dicono che al Tour de France ogni tanto ci vengono, quando è vicino al confine. Erano qui, nel 1997, quando ha vinto Marco Pantani. Lui dice che aveva parcheggiato esattamente sotto al podio. Sotto a quel podio. E lei ha le lacrime agli occhi quando mi racconta che nel 1998 erano a Les Deux Alpes e la loro figlia, una bambina, aveva scritto su un pezzo di cartone: “Dal rosa al giallo”
E’ sicura di avercelo ancora, da qualche parte, come i santini nei cassetti, benedizioni dei giorni belli che non ti aspetti, che non sospetti nemmeno.
Uno striscione. Neanche uno per Marco, qui, dove la sua montagna ha plasmato in lui una parte di leggenda. Ma non so quanto importi, alla fine. Perché poi lo senti dappertutto, lo senti nel vento, lo senti in quell’istante che precede la bufera, incanto della montagna che aspetta. Così sarà sempre lui, spirito inquieto nei posti in cui la beatitudine ha fatto un po’ meno male – solo un po’ – di tutto l’altro dolore.
Il tornante e poi un altro tornante, serpentone indecifrabile con le curve che sbucano sul versante, cotte dal sole. E sopra i tifosi, i camper, le bandiere che sventolano nel cielo azzurro di un primo pomeriggio dove le persone si rubano l’ombra, qualcuno dorme sotto i camper come abusivi, altri stappano bottiglie di vino bianco che versano nei calici come se fosse un happy hour qualsiasi. Ma sono le due e la corsa passa esattamente fra tre ore e mezza, il sole è a picco, tre ragazzi divorano un’anguria e offrono a quelli che passano – in bicicletta – una specie di amaro. Due francesi e un fiammingo, per uno di loro è la prima volta al Tour, vuole fare amicizia con tutti. Quando capisce che sono italiana mi dice Forza Vincenzo.
“Do you like Nibali?” gli chiedo.
“I love Nibalì” mi dice senza battere ciglio.
Gli sorrido.
Ma quando abbiamo cominciato a odiarci, noi?
Lontano dalla grandeur è facile pensare a che cosa è il ciclismo davvero, al pellegrinaggio lento e impassibile verso la vetta, alla gente che sale con le tute di peluche quando ci sono quaranta gradi all’ombra, al fatto che nessuno si incazza, che si condivide tutto come fratelli il cui sangue l’ha unito la strada e punto.
Quando la corsa è all’attacco dell’Alpe, chissà come mai, lo senti. Come i pellerossa che ascoltavano la terra, come i vecchi che guardano il cielo e capiscono il destino. La gente guarda verso l’elicottero che sorvola la montagna, scruta il gruppo anche se non lo vede, lo immagina dai boati che salgono dalle curve più in giù. Un olandese con la bandiera disegnata sul petto coi pennarelli porta da chissà quale nascondiglio segreto una specie di Jack Daniel’s in un sacchetto di plastica, chiuso come quelli dei pesci che vincono i bambini alle fiere. Bevono da lì prima che Kruijswijk arrivi davanti a tutti sul tornante che si sono scelti, se lo passano mentre la quiete si spezza e le cinque del pomeriggio mettono ombre scure sulle facce sofferenti di chi lo sa che mancano ancora forse sette chilometri, che tutto può succedere, che tutto si ribalta come niente, nel bene o nel male.
Una piccola folla si addossa contro la finestrella di un camper per vedere la diretta. Non si capisce niente, non si capisce mai niente. La corsa finisce lì. Via tutto, le seggiole pieghevoli, le griglie, le tende, le bandierine, le frecce staccate dal percorso. Di nuovo l’Alpe è nuda, sento le ginocchia che mi chiedono chiaramente perché sono salita quasi sei chilometri a piedi quando sapevo che scendere sarebbe stato il devasto.
Una specie di sciamano sbatte due conchiglie tra di loro, forse le ha usate per fare il tifo, forse hanno un significato che io non so, ma adesso rimbombano nella valle che ogni tanto porta il rumore delle sirene, l’odore di frizione, di campagna. Qualcuno ha strappato i girasoli, il solo rimasto ha i petali per metà.
Non sale nessuno a Les Deux Alpes, stasera tutti sono altrove e gli impianti sciistici come croci sperdute sono immerse nel tramonto mentre le nuvole hanno quel colore tra il rosa e il giallo, prima della notte dove non si sa ancora se ci saranno le stelle oppure no.