Le pecore che brucano nei campi semi brulli sembrano immobili come in un quadro, i loro velli giallognoli assomigliano a pennellate materiche nella luce del sole d’inverno. Le montagne si nascondono in una foschia grigio azzurra anche se il cielo dietro gli alberi scuri della pineta è argentato a tratti. Nessuno può parlare di gennaio senza sapere del suo profumo più intenso che lo distingue da tutti gli altri. Il calicanto giallo e trasparente come questo sole, come le ombre che mette persino sul mezzogiorno, sul tappeto di aghi e di ricci delle castagne vuoti e sopravvissuti chissà come. Come noi che passiamo certi inverni che non sappiamo neanche da dove siano arrivati. Sembravano così tremendi e invece a guardarsi indietro erano proprio stronzate.
“Mamma, come va, va…Hai capito? Come va, va”
Ma sì, gli dice lei. Fai del tuo meglio.
Non c’è fango, solo una striscia scura e continua fatta da tante altre strisce: ruote che sono passate, che hanno disegnato, intrecciato discorsi e magari imprecazioni assieme al silenzio, al turbinio che da fuori non si vede. Non si vede niente in questa quiete rotta di tanto in tanto dalle grida secche, dagli incitamenti.
Alé, Alé, Alè.
E sì che mi mancheranno. E sì che ho ancora la stessa paura come una bestiolina che esce dal letargo senza aver riposato neanche un pochino. La stessa sensazione di non avere abbastanza tempo, di non essere abbastanza per fare tutto quello che vorrei. Quella maledettissima convinzione di non essere mai pronta. Sarà forse vero che è la paura del vuoto a costringerci a buttarci. Così tanta ansia prima della beatitudine, come buttarsi con un paracadute. La paura e la libertà, in mezzo cosa non lo so.
Fai del tuo meglio, non basta cosi?
Guardo come si incurvano i corpi per rilanciare la bici, mi chiedo se esista un lato del ciclismo che sia uguale a questo, così intimo e solitario dove sei solo all’inizio, in mezzo e alla fine; così cruento e deliziosamente aggrappato a Madre Terra, ai suoi sortilegi, ai suoi segnali, alla sua drammatica bellezza durante la stagione in cui tutto dovrebbe appassire e dormire e invece no.
Ognuno fa del suo meglio qui, anche se la stagione finisce e un’altra ricomincia, la clessidra scorre come se la sabbia da spargere fosse infinita. E forse lo è.
A volte è abbastanza fare del proprio meglio, a volte si spezzano i limiti anche così, pensando che si può sempre chiedere di più a sé stessi. Mentre torno a casa gli alberi spogli che incorniciano l’orizzonte della superstrada stanno diventando un groviglio grigio e informe contro il cielo che si prepara al buio, bocche che inghiottono un altro giorno. Forse – ma non sono sicura – ci si stanca di più a restare fermi.