Un tac secco, senza neanche darmi il tempo di dirgli toglimi le mani di dosso che nessuno ti ha dato il permesso. Ma non ho voglia di litigare stamattina. Il braccialetto giallo porta la data e il chip di ieri, è inutile starci a girare intorno, c’è poco da provare a fregarli.
Embrun sarebbe un paese sul lago ma le transenne non permettono di raggiungere la riva o quello che è. C’è un minigolf con le fontane, statue con bocche aperte in cui miracolosamente la pallina dovrebbe entrare, mini giardinetti con i fiori. E un bar-pizzeria italiano di un torinese che ha sempre sognato di aprire un locale lì. Il posto è molto lontano da quello che si potrebbe considerare un sogno, lui è sorridente, la colazione con la torta di mele buona, il conto da cena in un ristorante con stelle Michelin.
E’ una mattina senza fretta, senza pensieri anche, sono tutti chiusi fuori non so dove.
Una signora porta a spasso un carlino grasso nel passeggino, piovono i gadget della carovana e i bambini all’ombra del parco se li contendono. Vince il più veloce, è la legge della sopravvivenza. Siamo pur sempre animali, anche quando ce ne dimentichiamo.
Partire prima della corsa ha un certo fascino. Le strade vuote, la gente accampata ovunque con sedie e ombrelloni, persino sulle strade diritte che sembra di stare in Messico dove il gruppo ci metterà mezzo secondo a passare. Aspettare così tanto per vedere così poco. E’ il nodo che lega questo amore.
C’è il lago azzurro, le vele bianche delle barche.
Sull’autostrada improvvise nuvole nere rovesciano secchiate d’acqua sui campi di girasoli che sfilano dal finestrino. Il ruggito di un temporale estivo che si sfoga e se ne va presto, il cielo è azzurrino sopra la Provenza, la faccia pallida di chi si asciuga le lacrime dopo aver pianto troppo. Fa caldo di nuovo, le strade deserte di Salon de Provence sono arroventate dal sole del primo pomeriggio. Una buganvillea mette chiazze di ombra sul marciapiede. C’è vita solo dove c’è la corsa. Un tè ghiacciato, i pullman deserti che recintano il vuoto nell’attesa, assuefatti nell’aria condizionata.
Un signore che passa e mi vede seduta sulla panchina della fermata dell’autobus mi dice che oggi non passerà.
Lo so.
Dove dovrei andare?
E’ uno di quei giorni in cui la fuga arriva al traguardo, dal rumore degli elicotteri capisci dov’è. Ed è assurdo che lì resti ancora tutto così, cristallizzato anche dopo cinque, dieci minuti dall’arrivo. Ha vinto Boasson Hagen, al suo pullman ci sono parcheggiate le ammiraglie con la faccia di Nelson Mandela sul finestrino posteriore e la bandiera del Sudafrica usata come tenda. Aprono lo spumante e lo versano in bicchieri di plastica. Brindano in cinque, uno di quei brindisi da campeggio senza neanche il festeggiato.
Il gruppo arriva a tratti, sciolto lentamente dall’imbuto della gente sul traguardo, mentre dall’asfalto sale ancora l’afa incessante degli ultimi giorni di luglio. Nel canalino tra il marciapiede e la strada scorre l’acqua di scarico delle docce. E’ rossa. Sangue lavato via da una caduta. La prima cosa da fare: grattare via tutto, togliere quei sassolini dell’asfalto che ti si incastrano nella pelle viva e rischiano di infettare. Penso al dolore in quel rivoletto silenzioso che scorre giù in fondo alla strada in quello scolo, proprio come una vena. I bambini saltano qua e là, qualcuno ci finisce dentro con le scarpe.
Radio Nostalgie prendeva anche in Belgio ma adesso la stazione è disturbata o trasmette solo pessima musica. Forse non ne ha mai trasmessa di buona, in verità. Eccola lì Marsiglia, con la sua faccia bianca e grigia del porto, imbevuta nella nebbiolina umida di un clima torrido. Il mare si distingue solo per i luccichii sull’acqua dell’ultimo sole.
Una striscia là in fondo, intervallata dalle navi da crociera.