C’è un vecchio cancello in ferro battuto sostenuto da due colonne di mattoni rossi: Ristorante e albergo c’è scritto. E cinque stelline. Nel giardino con l’erba alta e secca c’è una fontana e una panchina mangiata dalla ruggine, ci crescono attorno quelle margherite selvatiche che sembrano camomilla. Chissà da quanto tempo nessuno si siede lì.
C’è il sole torrido di quel giugno che sbiadisce i papaveri, che fa diventare il grano subito giallo, che fa il cielo come carta da zucchero tutto uguale, afoso e senza nuvole. Non c’è vento e la cronometro è sentire il vento.
Caluso è come tanti altri paesini di qui. Le saracinesche dei circoli chiusi, le vecchie biciclette in vetrina, i bar con quattro tavolini fuori, le case, la chiesa. Attorno i campi, attorno le vigne. Il silenzio dei pomeriggi sonnecchianti quando l’estate è piena.
Si tolgono tutto, stesi a terra in fondo al rettilineo di pavè. Il casco, i guantini, i copri scarpe che vadano al diavolo, tutto per andare più veloce e invece niente. Resta il cardio, aggrappato ai toraci bianchi, come un serpente nero, come una morsa, come un abbraccio. Resta lì a sentire che i battiti rallentano piano, che il sudore continua a scendere, a rotolare giù insieme alle bottigliette d’acqua che si sono versati addosso, abbandonate per terra, deformate come le lattine dopo un concerto. Sogni e perdi in un pugno di chilometri, in un pugno di secondi. Te ne accorgi davvero quando ti fermi, è stronzo e buono il ciclismo: finché sei in corsa è tutto possibile, finché stai pedalando allora puoi scappare davvero. Finché sei nel vortice ti sembra che si possa vivere così. Nessun pensiero, nessuna tristezza, nessuna delusione, nessun rammarico. Quando ti fermi lo sai che non si può scappare da niente. Sarà il caldo che riempie il vuoto con il suo sudore lento e denso. Sarà il pomeriggio che sfoca tutto nella sua afa sanguigna, che li vuole così con le schiene appoggiate alle transenne a guardare il niente. Passa tutto come un treno quando ti fermi. Sei tu la stazione, vedi le carrozze, sai che qualcuna vorresti fermarla, vorresti dirgli aspetta che salgo anche io. Aspettami, ti prego. O portami via.
Davanti al podio c’è un bambino così piccolo che neanche arriva alle ginocchia. Una borraccia in mano e i capelli neri, così tanti e lucidi, un po’ appiccicati alla fronte per il sudore. Applaude a tutti con un impegno quasi commovente. Applaude senza smettere un secondo. E’ l’unico che spezza la barriera di oggi, l’unico che osa chiedere una foto a loro che sono al di là del muro invisibile di una corsa andata male.
Guardo il disordine di scarpe e cose che i massaggiatori raccolgono pazienti, guardo quelle pozze d’acqua da dove riemergono i disillusi. Il rettilineo si svuota piano, giugno alita ancora il suo fiato caldo su tutto. Ci vuole camminare a piedi nudi accanto al silenzio, a volte a costo di tagliarsi, di prendersi i vetri o le spine.
C’è ancora giugno che non vuole smettere, che si mangia persino la sera. C’è la campagna gialla di sole sotto il cielo grigio-azzurro e una tenuta in lontananza, oltre le balle di fieno dorate. Vorrei solo dire alle mie briglie che non devono più tenere niente di me. Che si può fare bei sogni senza essere tristi, senza girare la faccia dall’altra parte.
Aspettami. O andiamo via.