Cascinette-Chiaverano-Biella. Un mantra, tipo. Sono le sante indicazioni per salire al GPM di La Serra. Il signore di fronte al benzinaio, di guardia alla sua transenna con il giubbino giallo fluorescente, le ha ripetute tre volte. Un signore coi baffi, indigeno di sicuro, dall’accento e dalla precisione. Un riscatto per la categoria, e questo andava detto.
Cascinette-Chiaverano-Biella.
Paesi con i campanili che si arrampicano sulla collina, coi muri a chiudere i giardini piccoli e afosi dove sbucano le rose rampicanti, le piazze deserte e l’ora di pranzo, i negozi chiusi, un fiorista con un’insegna antica, un anziano in canottiera con le scarpe e i calzini neri che risale piano la stradina stretta e deserta con un semaforo che ferma il nulla.
C’è questo piccolo locale aperto, l’unico penso. Fuori un giardinetto di ghiaia e fiori e tavolini di ferro battuto, dentro le foto antiche, il profumo di lavanda e achillea messi ad essiccare, due vetrate che danno sulle aiuole. Anacronistico e incantato e totalmente estraneo al torrido primo pomeriggio di fine giugno. Arriva un gruppetto di persone. Lui tiene al guinzaglio un cane gigante, parla inglese con gli amici, italiano con il proprietario. Lo frega l’accento, è quello di qui, le radici non le perdi neanche a volerlo. Si conoscono da sempre forse, è cresciuto in paese forse. Si siedono. Adesso sta in Australia, lavora al Pronto Soccorso, dice di spiagge: lunghe, dorate, che affondano nell’Oceano.
“Perché torni qua, allora?”
Perché là è inverno adesso, dice. Una scusa, forse. Chiedono della corsa, non passa di qui, ne parlano lo stesso anche se non sanno cosa sia. Guardo la tavola apparecchiata sotto il pergolato di viti, l’ombra quieta su tutte quelle esistenze che oramai vivono altrove ma restano in qualche modo aggrappate alla collina, alle cose che non riescono a dimenticare. Forse è di questa sostanza che è fatto l’amore. Restare legati per motivi che neanche sappiamo.
Salendo a La Serra ad ogni curva c’è uno striscione, la gente riunita a crocchi sotto le chiazze d’ombra degli alberi sull’asfalto, le canottiere arrotolate ai fianchi come le felpe durante le gite scolastiche e le pance in bella vista, il sudore che cola dalla fronte. Penso a stamattina, a Milano grigia dopo tanto tempo, il mio skyline preferito contro le nuvole basse; e l’acquazzone lungo l’autostrada nera di pioggia, le piante piegate in due dal vento, inginocchiate sulla pianura assetata. E un mare giallo con la tempesta già lontana. Girasoli nelle campagne astigiane, tutti con la faccia rivolta in su, aspettando un sole che vedevano solo loro, dietro le nuvole di sicuro, la natura non si sbaglia mai. Non è un caso che il ciclismo firmi il suo patto di sangue quando la strada sale, quando lo fa in silenzio, incidendo la montagna. Non è un caso che la bicicletta non abbia motore e che sia semplice quanto le cose semplici: la fatica, per esempio. Di alzarsi sui pedali o di aspettare. C’è merito in entrambi i casi, c’è un filo indissolubile che a spezzarlo si muore.Niente mitiga questo caldo afoso del primo pomeriggio, questa salita sembra lo Zoncolan da fare quattro – mila – volte e ad un ritmo che o stai sotto o finisci dieci tornantelli più in giù. O reggi o niente, vie di mezzo nessuna. O forse sì, c’è pur sempre il limbo della gente che ti dice vai, vai, i tuoi tifosi mischiati agli altri tifosi, la nuvola delle griglie che sale come un segnale di fumo. Siamo qui. Che non importa se non vedi niente, se poi quando arrivi nemmeno li riconosci dal tanto che non riesci a stare in piedi, dal tanto che vorresti una doccia e nessun’altra cosa al mondo. Le regole sono queste, non le ha decise nessuno, è stata la strada, che ti abbraccia e ti stritola: devi fidarti, come quelli che accarezzano i serpenti.
Non fa niente.
Il supporto ha regole tutte sue.
Siamo qui.
Il ciclismo è una cosa che riguarda gli spiriti, anche se non sembra.
Ivrea è un castello che sembra quello delle principesse visto di sfuggita prima di tornare, le pozze che scivolano via dai pullman fermi, ci farei barchette di carta con le mie malinconie, le annegherei dentro in quell’acqua che il sapone rende a tratti color arcobaleno. Non ci sono più i girasoli lungo l’autostrada, solo le nuvole nascondono l’incendio del tramonto, si fanno disegnare i contorni dal sole che sta per morire.
Chi sa dove guarda adesso quel mare giallo. E dov’è il suo sole che a Milano trapassa le costole di un palazzo in ristrutturazione e lo fa sembrare uno scheletro o un miraggio.
Anche questa sera resteremo così, a benedire questa stanchezza che ci fa addormentare all’istante. Girasoli senza sole. Che poi basterebbe la prima stella dopo il tramonto, per questa e per le notti che dovranno venire.
Basterebbe così poco per illuminare il buio.