Qualche nuvola bianca come una spumiglia sbuca dalle montagne, il cielo è azzurro. Davano temporale, lo davano dalle undici e adesso qualcuno prega che non si avveri la previsione delle quindici. Meglio che non dico quello che avrebbe detto mio nonno, rigorosamente in dialetto come tutti i proverbi migliori. Intanto è mezzogiorno quasi spaccato e l’aria mitiga a tratti il sole torrido di fine giugno. Lo strappo di Erbanno va su secco e d’improvviso, è breve e spacca gambe. E’ una specie di pugnalata a tradimento dopo un falsopiano, giusto lo spazio di un parco giochi e un piccolo bar che da sulla valle, pieno di gente che chiede solo cose da bere. C’è odore di barbecue, il fumo delle griglie si mischia al caldo che sale dall’asfalto mentre qualcuno si rifugia sotto le poche chiazze d’ombra. I tifosi danno la caccia ai posti migliori dove appendere gli striscioni, qualcuno ha portato i gazebo, le sedie, i tavoli, le panche. Sono veri e propri presidi: a ognuno il suo, uniti dalla regola non scritta che poi, alla fine, si fa il tifo insieme e ci si scambia pure la vernice per scrivere sull’asfalto. Perché il ciclismo, diviso, non ha proprio senso di esistere.
La curva di Enrico Battaglin è degna dei migliori tapponi di montagna: stand da pranzo sociale, pupazzo gigante gonfiabile personalizzato e mezza strada con scritto Batta fino allo sfinimento. L’altra metà è per i tifosi di Canola che avevano pure portato lo Spritz ma non ha resistito al viaggio da Vicenza a qui. Poi Petilli, Quinziato, Berlato. Ognuno ha il suo striscione che significa sempre: “Siamo qui”
Sulla vetta c’è un gruppo con tanto di griglia perenne, brandina per l’attesa e scorta infinita di birre che vengono diligentemente messe in fila, una dietro l’altra, una volta vuote. Sono i soliti riti della montagna che vengono trasportati in ogni punto dove la strada sale. Ecco, questa è la magia che si compie e ha il contrasto della vita stessa: una cosa si rompe, l’altra ricostruisce. Più le pendenze fanno male, più appassionato sarà il tifo. E’ come una legge matematica.
La gente sale e si apposta, il sole scotta, un bambino in pantaloncini con un cappellino più grande di lui corre su e giù. Il brulichio si fa fitto, si fa intenso. Come il cielo che è così azzurro, come il caldo di un primo pomeriggio rovente come un forno. Ogni tanto l’aria muove gli oleandri e le siepi di gelsomino delle villette quiete sopra il paese, porta quel profumo lievemente dolciastro che accompagna certe notti d’estate.
Passano due o tre macchine, qualcuno dice che tra poco saranno qui. E’ la febbre del primo passaggio.
A bordo strada c’è oramai un cordone umano di gambe, di braccia. I ragazzi in vetta mettono hit a casaccio ripescate nel tempo. Si sono arrotolati i pantaloni della tuta e li hanno fermati con l’elastico sulle cosce e ballano in infradito ingannando l’attesa. Mi viene da ridere quando sento la intro di Rock’n’ roll Robot. 1981. Una delle mie preferite nella categoria genialità demenziali. Per la prima volta, dopo un po’ di tempo, mi diverto davvero, fino in fondo. A volte non pensi che in certe giornate puoi ritrovare lo spirito del ciclismo intatto, come all’inizio, come quando era solo un passaggio, forse due, anche tre e poi l’arrivo in tv ma con l’adrenalina ancora addosso. E’ strano come certe cose non riescono ad arrendersi alla forza dell’abitudine. La salita, qualsiasi essa sia, ha gli stessi riti eppure sempre diversi. Un teatro replicato mille volte ma con nuove comparse, nuovi sfondi.
Non c’è niente altro che mi commuova così, oggi. Restare in mezzo e ascoltare che è una delle mie vocazioni migliori. Ascoltare quella gente che grida su quei trecento metri duri come una bastonata improvvisa, che si sbraccia per i primi e dice continuamente “dai che è finita” agli ultimi. Sembra un disco rotto ma non lo è. Ogni incoraggiamento non è mai un vuoto a perdere, i tifosi lo sanno e i ciclisti pure.
Passano le ammiraglie, una si ferma per un istante, allunga due bottiglie d’acqua fresca a una signora che le prende tra mille ringraziamenti. Un sigillo. Come darsi la mano, ancora una volta, per sempre.
A volte ritroviamo per caso il senso delle cose. Cotti da un sole imprevisto nel bel mezzo di una festa sull’orlo del profondo trash. Basta uno strappo così per ricucire.
Più tardi, dopo il trambusto dell’arrivo, ripasso con la macchina su quella stradina ritornata silenziosa. Le griglie sono sparite, gli striscioni pure. Restano le transenne, poi spariranno anche quelle. Restano le scritte. Resteranno ancora per molto. Il passaggio di un istante che dura per sempre. Il ciclismo ha questo potere di rendere certe cose eterne. Dal vortice si esce rigenerati.
C’è ancora l’aria che mitiga il caldo del giorno, gli oleandri che si bevono l’ultima luce del sole e le villette che si preparano alla notte che forse profumerà dei gelsomini che sbucano dai cancelli.
E’ sempre così: all’apparenza sembra non rimanga quasi niente di quello che è stato ma non è vero. L’affetto disordinato e sincero è qualcosa che non se ne va. Ognuno ha avuto la sua parte, nessuno escluso. Ognuno ha avuto qualcuno che ha urlato il suo nome in un punto qualsiasi di quei chilometri. Che alla fine è questo che ci tiene in piedi per davvero, sapere che chi ti ama farebbe di tutto per sostenerti. Anche solo per un istante, perché non si sa mai, potrebbe essere quello decisivo per cominciare a volare.
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