E’ così strano tornare quassù. Son passati due anni dalla mia prima volta al Tour de France eppure mi sembra ieri. Mi sembra di riconoscere questo posto come una parte di me. D’altronde forse è sempre così che va, certi incontri te li ricordi per tutta la vita. Era luglio ed era una giornata come questa. Gli stessi prati verdi e le distese di pini e le montagne striate di neve. C’era Nibali in maglia gialla ed era impossibile non andare a vederlo. Anche solo per un istante. Una questione di cuore e un po’ d’orgoglio.
Risoul è come l’ho lasciato. La sua strada a curve che si arrampica sulla schiena della montagna, le case di legno contro il cielo azzurro, l’aria buona e il sole che scotta.
Certe volte, quando seguo le corse, mi dimentico di mangiare. Stavolta ho davvero troppa fame ma nessun francese ha pensato fosse vantaggioso tenere aperto anche un semplice bar. C’è solo una pizzeria con una coda immensa. E’ giusto il nostro turno quando finisce la pasta. Zero. Ho capito che oggi non si mangia. Rimedio una crepes al formaggio al villaggio e uno snack alle mandorle trovato sullo scaffale di un minimarket letteralmente saccheggiato. E poi giù. Ai meno seicento metri. Ci sono corse e ci sono montagne che devi vivere da dentro.
Di chilometri ne mancano ancora. Mi sdraio giusto cinque minuti e il cielo di Risoul così azzurro, i rami dei pini contro il sole mi sembrano un caleidoscopio. Come quello che aveva mia zia quando ero piccola e mi sembrava una vera magia. Passa un aereo con la sua scia bianca. Due, come una coda di rondine. La voce dello speaker è lontana ma arriva a tratti, rimbomba sulle curve della montagna, va dove corre il vento. Ed è per questo che nessuno sa niente. I tifosi olandesi sono chiusi nel loro camper sull’altro lato della strada: hanno la parabola, sicuramente stanno guardando la televisione. Su questa curva capiamo a pezzi cosa succede. Nomi, distacchi, inseguitori ed inseguiti. Cose sparse, frammentate. E forse per certi versi è bello così. Certe volte è divertente godersi l’attesa ignorando tutto.
Nibali.
E’ solo un nome portato dal vento ma tutti sanno cosa significa. E allo stesso tempo nessuno vuole crederci per non illudersi. Invece Vincenzo Nibali è davvero solo al comando. Lo dice la macchina di inizio corsa, dopo che un tifoso con una bandiera italiana, glielo ha chiesto.
Nibali testa della corsa.
Un’attesa infinita, il solito silenzio irreale. Lui sbuca dalla curva, passa leggero tra le grida della gente. Come quella volta. Come quella volta in maglia gialla. Tutto si ripete come la bolla di un ricordo. E poi c’è Kruijswijk. E il signore olandese che gli grida con un mini megafono: Alè, Stewie, Alè! Lo fa con la tenerezza di chi è venuto fin lì per vederlo in testa alla classifica e forse sa che questo è un sogno infranto all’improvviso.
Risoul che hai segnato i destini, ancora una volta. Che sei stato, con le tue strade, come il palmo di una mano che disegna il futuro.
Arriva un ragazzo con uno squalo di peluche. “Domani vinciamo il Giro! Domani vinciamo il Giro!” grida.
Basta poco, così poco per riaccendere tutto. Un gesto così dimostra che niente è impossibile. Dietro di lui c’è un suo amico vestito da panda. Passa e mi da una carezza. E’ così strano il ciclismo. Sconosciuti che a volte, anche solo per un attimo, condividono tutto.
Salgono tutti, uno per uno e poi il gruppetto. E subito le transenne che scorrono tutte assieme. Via gli sponsor, via le fascette. Via tutto. Che la montagna torna al suo silenzio. O quasi. Perché nel sole del tardo pomeriggio restano i meccanici delle squadre che stanotte dormiranno qui. Lavano le biciclette, la schiuma luccica sui telai. Primoz Roglic parla con uno di loro dal balconcino di legno della camera dell’hotel.
Mentre torno in Italia e la sera scende sulle grandi e brulle distese dell’Alta Provenza, penso a come deve essere restare lassù e vedere le stelle in un cielo limpido e immenso. Penso a Risoul nella quiete della notte con tutte le luci dei paesi a valle che palpitano lontani.
Tornare è davvero una bella parola. Ha il potere di rassicurare.
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