C’è il suono della campanella. Niente scuola stamattina, però. I bambini tutti vestiti di rosa sono accalcati su tre gradini, tutti in fila e, come tutti i bambini, non riescono a stare fermi per l’entusiasmo. Forse qualcuno di loro sa che cos’è il Giro. Per gli altri è solo una grande festa.
Sono quasi le dieci e fa già caldo come se fossimo a mezzogiorno. La Brianza è tutta qua. C’è gente che ha preso un giorno di ferie da gennaio. Da fuori è solo una partenza ma da dentro è un ciclone, un evento che la gente aspettava contando i mesi. Per arrivare al foglio firma sul piazzale tra ombra e sole di Villa Casati c’è un labirinto di transenne dove i bambini sono aggrappati come scimmiette impazzite. Quando passo allungano le braccia, le mani. Vogliono il cinque.
“Ti prego, fammi l’autografo. Scrivimi il tuo nome qua.”
Quando arrivano i primi ciclisti li assalgono. Si fanno autografare le mani, le braccia, fogli sparsi, bandierine pubblicitarie. Li toccano come star. Non sanno chi sono, come si chiamano e nemmeno da dove vengono. Ma non importa. Ho sempre pensato che una parte di linfa vitale del ciclismo sia questo tipo di affetto qui. Sincero. Un forza tutti! gridato a gesti. Una felicità contagiosa che alla partenza di una tappa come questa è forse più incoraggiante di qualsiasi training mentale.
A volte basta davvero così poco per partire sereni.
A volte basta davvero così poco per capire che, oltre i tecnicismi, oltre le polemiche, le cose fatte e non fatte, rimane inossidabile il rapporto tra pubblico e tifosi. Anche dell’ultima ora.
Sono le undici passate e c’è odore di fritto nell’aria. Una signora brontola. Cerca Nibali che si sta attardando alle firme. In dialetto dice che deve andare a casa a mangiare il risotto ma il Nibali lo vuole proprio vedere, non può andarsene senza dire poi di averlo visto. E quando Vincenzo arriva la gente si sporge, si allunga, tende le braccia, qualcuno vorrebbe solo stringergli una mano, toccarlo, dargli una pacca sulla spalla. Che le emozioni proprio non si dimenticano, quello che un ciclista regala sulla strada resta sempre e per sempre. Vincenzo sorride, non può accontentare tutti neanche volendo. Però ci prova sempre. C’è un bambino che gli chiede di autografargli la maglia della sua società che ha addosso. Un carabiniere lo aiuta e lui paziente aspetta che Nibali scriva il suo nome sulla stoffa. In silenzio, forse così emozionato da non riuscire a dire proprio nulla.
La gente chiama, urla incoraggiamenti tutti diversi. Chissà se loro li sentono. Di sicuro questi sono punti di contatto che tengono in vita. Punti dove il sangue scorre più veloce, arriva prima al cuore.
C’è una marea di persone attorno a quel rettilineo dove i ragazzi aspettano sotto il sole. Le mani che sistemano le radioline, i pantaloncini, lo scarpino. Un occhio al Garmin e un sorriso alla signora che chiama per una foto.
E poi il conto alla rovescia, loro che sciamano via lentamente per le vie del centro. E tutti gli altri rimangono fermi a guardarli andare via, a guardare le ammiraglie, una per una, fino all’ultima. E’ già finita. Il tempo di una mattina attesa per mesi. Il tempo tra una colazione e un risotto.
Restano le transenne da smontare in fretta. Resta da tornare a casa, racimolare le cose per preparare una nuova valigia, ancora. Non mi piace né partire, né tornare. Son fatta così. Sento il viaggio solo quando lo sto vivendo. Nel mezzo, nel vortice. E’ il mio posto preferito.
Anche adesso, non riesco a contare i giorni che ci separano da Torino. Mi sembrano infiniti. In una delle sue poesie, Nazim Hikmet dice che i più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. Il futuro ci salva, anche se a volte non è come lo immaginiamo. Eppure siamo umani: ci sono notti in cui non possiamo fare a meno di sperare che la mattina dopo possa arrivare qualcosa di bello. A sorprenderci.
Non importa se speriamo da una vita. Questa cosa che il meglio deve ancora venire ci tiene in piedi. Sui pedali.
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