Salendo per la mulattiera sconnessa si aprono qua e là gli scorci del mare che sembra una lastra d’acciaio nel primo pomeriggio. Tante piccole vele laggiù al largo assomigliano a quei gabbiani che si lasciano ondeggiare sul pelo dell’acqua nelle torride giornate estive. Quassù però il vento scuote le chiome delle palme alte nel cielo senza sentimento, larghe pozze di cemento per l’acqua piovana emergono tra le fronde degli alberi colmi di limoni. Qua la bellezza si mescola allo squallore e, come spesso succede nella vita, è impossibile dividere uno dall’altra. Una carriola arrugginita capovolta nell’orto e un gruppo di pale di fichi d’india. Pezzi di vetro mischiati ai diamanti che rovinano l’effetto d’insieme per sempre. L’impatto delle grandi serre sulla collina non basta a giustificare la grazia dei famosi fiori di Sanremo. Nessuno si chiede mai qual è il prezzo che paghiamo per mantenere la facciata delle apparenze.


Il santuario della Madonna della Guardia sembra una cartolina da quei piccoli paesi del sud: arroccato sulla curva, a vegliare il mare, circondato dai pini marittimi che si piegano con il vento. Per la gente di qui questa è la curva dello scatto, quindi forse sarebbe più giusto dire la curva del miracolo, la rampa per spiccare il volo fino a via Roma giù a Sanremo, il tratto di falsopiano per allungare le distanze tra gli avversari, l’ultimo strappo per andarsene definitivamente e la discesa in picchiata sul filo del rasoio. Gli attaccanti arrivano all’impazzata con Pogačar in testa, il tipo di fianco a me avrà di sicuro bisogno di un’ambulanza, dal tanto che grida cose a caso. La sua prima volta, posso scommetterci. E posso anche capirlo. Guardare un attacco è come stare nell’occhio del ciclone, tutto attorno a te la tempesta e tu che la guardi come se ti stesse per prendere da un momento all’altro per scaraventarti in un altro continente.
W-o-w.

Mentre scendo di nuovo le scale della mulattiera la corsa è lontana, pochi sanno chi ha vinto e un gruppo di ragazzi si riunisce attorno agli ultimi tizzoni accesi di una grigliata domenicale su una piccola terrazza affacciata sul mare. Il ciclismo è questione di un istante che noi abbiamo imparato a far durare per sempre.

La luna rossa sbuca tra le nuvole scure mentre i pescatori escono al largo e si illuminano i quadranti degli orologi dei campanili dei piccoli paesini sui quali si affacciano i viadotti. Sento di nuovo la malinconia del mio ramo perduto. Nonostante tutti gli sforzi, nessuno di noi è riuscito a compartimentare davvero la ferita per poter andare avanti. Ad ogni primavera guardiamo la nostra cicatrice come se fosse un taglio ancora fresco, ci scorre dentro lo stesso sangue con il quale abbiamo scritto mille lettere al silenzio.
Senza mai dire una parola, abbiamo capito che nulla avrebbe dovuto separarci mai.
Si chiama “capitozzatura” il taglio indiscriminato del fusto, delle branche primarie o di grossi rami. Molte persone la attuano per cercare di tenere a bada la crescita dell’albero. In realtà questa pratica contribuisce soltanto a danneggiarlo irrimediabilmente e a renderlo sempre più fragile, stagione dopo stagione.