L’ultima volta che sono stata a Torino era il 2016 – l’ultima tappa del Giro – e mi ricordo solo due cose: io che corro per chilometri cercando di arrivare in tempo almeno per la premiazione e mio fratello che bestemmia contro una folla di gente che aveva invaso il ponte Vittorio Emanuele come la mandria di gnu nel Re Leone.
Eppure, anche se questa mattina, da quassù, la città sembra diversa, con la sua corolla di montagne innevate tutte attorno, le nuvole che striano il cielo azzurro e la Mole che spezza inconfondibilmente l’orizzonte, in centro le macchine continuano a incanalarsi in gorghi assurdi e passare gli incroci in modo totalmente letale. Ma forse sono io ad essere in una di quelle mie giornate in cui non mi piace niente. I palazzi in stile Liberty, le gallerie, le piazze mi passano sopra come se non avessero nessuna straordinarietà, come se tutto facesse parte di una storia già vista. L’immaginazione è sempre un passo più avanti della realtà.

Sdraiate sulla collina del parco ci sono più persone che in un quadro puntinista ma sul fiume c’è una straniante aria di pace mentre un vento leggero porta via il caldo di un maggio improvvisamente soffocante. I vogatori spezzano l’acqua e le rondini volano sopra quella vena turchese di quiete nel bel mezzo del caos cittadino. Improvvisamente mi si svuota il cervello. La collina di Superga mi fa pensare a quando guardiamo la luna dalla terra, sognando un posto lontano da tutto, dove non prenda il telefono e le ferite abbiano almeno il tempo di rimarginarsi.


La gente spia dalle aperture dei drappi rosa stesi lungo la cancellata del Castello del Valentino, come se qualcuno potesse veramente tenere il ciclismo lontano dal suo pubblico. Come se si potesse – anche solo per un secondo – pensare di dividerli. Si aprirebbero le costole con il filo spinato, piuttosto.
Una lama di luce taglia in due i pochi metri che i corridori percorrono a piedi, senza neanche le biciclette, come una strana e triste processione. Ma loro si fermano da chiunque gli chieda una foto, le mani dietro la schiena. Dicono grazie. La verità è che non si sono mai mancati così tanto, proprio adesso che non si possono più toccare. Adesso che questa barriera li separerà per un tempo che sembra per sempre.

Mentre si accendono le luci della sera, Torino è già lontana e io continuo a scrivere messaggi clandestini da mandare oltre il muro, pur sapendo che cadranno ancora nel vuoto di una notte uguale a tutte le altre. Un’altra notte a sperare che il vento del cambiamento possa soffiare più forte, ancora un po’ più forte, per riunire l’Est e l’Ovest nella loro bussola del destino.

La sera del 9 novembre 1989 Gunther Shabosky disse ai giornalisti di tutto il mondo che si poteva oltrepassare il confine che divideva le due Germanie. Ondate di gente invasero i check point, un fiume in piena si riversò ai piedi del muro, scavalcandolo e prendendolo a picconate. Quella notte si riunirono persone che erano state separate per ventotto anni. 

Posted by:Miriam

Sono nata in Brianza in una calda notte di luglio. Scrivo da quando avevo quattordici anni e nel 2012 ho cominciato questo viaggio che si chiama "E mi alzo sui pedali". Ho pubblicato "Voci di Cicala" nel 2013, "La menta e il fiume" nel 2015 e "Come un rock" nel 2019. Mi piacciono i papaveri, il profumo delle foglie di menta e la ninnananna della risacca del lago. A volte scrivo con gli occhi chiusi.

Una risposta a "Il muro di Berlino"

  1. Bellissimo….. Davvero un muro…. Ieri a Torino mi son sentito per la prima volta staccato forzatamente da questo meraviglioso mondo….. Qualcosa si è rotto….. Ciao

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