Milano, il sabato mattina: due gradi all’ombra e un sacco di persone che corrono ovunque come se ci fosse chissà cosa da inseguire a tutti i costi. Tra questi maratoneti mancati, sbucano milanesi direttamente dagli anni Settanta, con il cappotto scuro, il cappello e il giornale sottobraccio. Te li immagini subito mentre entrano negli androni scuri dei loro palazzi antichi e si siedono a fumare in salotto, lasciando fuori la città del 2021 che sicuramente odiano.
Ma la rabbia non serve a niente. La city sa tutti i miei sogni a memoria, sa come si sono spezzati e probabilmente conosce anche il perché io sia ancora qui – cosa che anche io ignoro.
Mentre i corridori si incolonnano alla partenza, penso a un’altra mattina di sole così, dove era veramente un buongiorno e la magia ci trapassava come il sole fa adesso con la fontana della piazza, rendendola scintillante. Ma niente di quello che è vero può essere cancellato, la corsa va verso la Riviera e io penso che probabilmente le cose buone hanno radici immense, alla fine trovano sempre la loro via.

Il mare è una lastra azzurra dai riflessi argentei. Dal finestrino appena abbassato della macchina entra l’aria fredda mentre il sole gioca sulla mia faccia con le luci e le ombre. La corsa è a cento chilometri da qui. Mi addormento sentendo esattamente la stessa sensazione di quando rientravo nel fresco della casa dei miei nonni dopo aver giocato in giardino. Mi sembra ieri e invece sono passati anni, il tempo non conta se paragonato a ciò che resta nel posto più profondo della nostra testa. Dormo e non sogno niente, quando mi sveglio due tizi stanno bestemmiando contro il gonfiabile della pubblicità perché il vento minaccia di abbatterlo ogni cinque secondi.
Le folate regolari fanno tintinnare le foglie delle palme contro i cancelli e le fanno sembrare navi in un porto che non c’è. Occhieggiano gli alberi di limoni dai giardini di quassù da dove si vedono i viadotti nella valle che sembrano immensi templi del silenzio, parte del quadro a pennellate pastose della Liguria selvaggia dell’entroterra.
La corsa è qui.


Il Poggio è fatto per scattare, per stare sui pedali a gomiti larghi, per soffrire e volare. Una rampa di lancio con il mare alle spalle e le curve per rilanciare l’azione. Così è questo che vuole di nuovo il ciclismo, uniti nel punto più estremo per poi andarsene di nuovo lontano, chissà dove e chissà per quanto.
Dal telefono di qualcuno sulla curva arriva la telecronaca che grida “flame rouge” e poi più niente, un limbo dove vince un outsider con in faccia la luce mistica di Via Roma, mentre qui i viadotti sembrano già nell’ombra e il mare è una riga blu perfetta. Nel bene o nel male, non si sa mai cosa ci riserva un arrivo. Questa lunga, tormentata, incompresa corsa ha ancora qualcosa da dire a noi che l’abbiamo amata così profondamente e senza riserve. Un gabbiano bianco passa sopra il fine corsa. Alcune cose possono essere scritte, altre no.
Dall’autostrada si vede un borgo abbandonato che il terremoto ha reso più desolato che mai, solitario sulla cima della collina, invaso dall’ultimo sole. Mi ricordo improvvisamente della gente che mette le capsule del tempo sotto terra o negli anfratti delle mura, nelle fondamenta delle case, per parlare in qualche modo a chi le troverà. Nelle valli sta scendendo la sera e io vorrei che potessimo aprire la mia capsula del tempo insieme adesso, ti stupiresti di quello che ho conservato di quei giorni. Forse ti metteresti a ridere, dicendomi di aver esagerato ma io ti risponderei semplicemente che lì ho custodito tutta la nostra luce.
Le capsule del tempo sono contenitori creati con lo scopo di contenere oggetti, giornali, registrazioni, fotografie, monete, ricordi destinati ad essere ritrovati nel futuro. Il posizionamento è solitamente fatto in modo da consentirne il recupero in un'epoca prestabilita e all'esterno possono essere apposte indicazioni sulla data di apertura.
bellissimo e intenso questo post che farebbe ingelosire i più grandi narratori.
buon prosieguo!
Che belle parole, grazie mille 🙂