“Nights in white satin
Never reaching the end
Letters I’ve written
Never meaning to send”
Chiedo al ragazzo quanto vuole per il palloncino con l’unicorno. Lui dice il prezzo, mia madre mi guarda e sorridendo mi dice di sì. Prendilo. Non ho più dieci anni da un po’ ma lei lo sa che non ho mai osato chiedere niente e questa è sempre stata la mia fregatura. Lei lo sa che ero una bambina che guardava e basta.
Per le bancarelle c’è odore di fritto e di dolci, la gente prende le patatine nei coni di carta come quando si va alle giostre ma senza giostre: è un po’ così anche il ciclismo, sembra una festa ma a volte è un martirio. L’ultimo countdown con Bergamo Alta alle spalle del gruppo ha un’aria surreale. Esattamente come la Milano-Sanremo, anche il Lombardia ha la partenza che si consuma in pochi minuti, la mattina presto, con la faccia da cazzo di una che si è appena svegliata e il giubbino pesante perché io nelle prime quattro ore fuori dal letto congelo come fossi in Lapponia. I numeri mi rimbalzano in testa. Tre. Due. Uno. Come il solo desiderio che vorrei si avverasse. Un conto alla rovescia alla cieca, come se racchiudesse tutti quelli di quest’anno, le corse fino al gate, gli occhi chiusi subito dopo il decollo, le ore spese a guardare le stesse notizie alla BBC che scorrevano lente e inutili, gli istanti che non hanno neanche avuto bisogno di essere contati. Se ne vanno tutti per l’ultima volta con questo odore di un circo piantato in mezzo a un campo d’ottobre e i giostrai che fanno girare lo zucchero filato come un cerchio magico, i clown che nascondono la loro faccia da Joker senza speranza.
Fuori dal traffico della città, la Lombardia si estende come un quadro in autunno per metà, con il suo cielo carta da zucchero che si piega su Como e il suo lago praticamente immobile, inconsistente sulle rive dove i gelsi esplodono come incendi prima di mostrare i loro gomiti nodosi all’inverno. La verità è che non riesco a vedere niente, nessuna solita lunghissima e malinconica sinfonia ma solamente un pomeriggio anestetizzato come quando ti devono togliere un dente. Tutto veloce, tutto indolore. Nessuna poesia nemmeno quando guardo Bauke Mollema attaccare sul Civiglio, luogo dello scatto per eccellenza, visione che ogni attaccante mette come immaginetta tra quelle della Madonna e di Bernard Hinault. Continua l’anestesia da tutto mentre gli altri cercano di riprenderlo e i secondi si accumulano negli ultimi nove, imprevedibili, chilometri. Un vuoto incolmabile sulla strada tra il primo e il gruppetto: nessun attacco è abbastanza. Certo. Molte cose distinguono nettamente le Classiche dalle altre corse ma una di queste è il fatto che non puoi vincerle se non hai la visione d’insieme. La coralità è tutto, insieme all’intelligenza, solo così puoi vedere la corsa. E se vedi la corsa sei un cazzo di fuoriclasse, lo sanno tutti.
Bauke urla sul traguardo perché ce l’ha fatta, una specie di urlo al cielo, teatrale come sa esserlo questa ultima sfida prima che le foglie cadano. Qualcuno recrimina il fatto che tutti gli abbiano corso contro come uno che vive nel mondo delle caramelle ma dai, parliamoci chiaro, la corsa è corsa. La verità è che i fuoriclasse non cercano scuse.
A me è mancato tutto ma questa è un’altra storia.
Mentre torno a casa la luna è gialla e offuscata dalle nuvole come in un’illustrazione di libri per bambini. Ripenso a tutte le lettere che ho scritto durante questi mesi. A quelle che non ho avuto il coraggio di spedire, a quelle che ho composto nella mia testa, guidando la mattina presto o la sera tardi, e che alla fine non ho mai messo su nessun foglio. Sono rimaste lì, prigioniere delle mie notti. Tutte cose che ancora vorrei dirti e spero che possano superare i limiti umani del tempo e dello spazio, esattamente come ci è successo una volta. Ed è stato per sempre.