Apro gli occhi un minuto prima che suoni la sveglia, una cosa che mi succede quasi ogni mattina da una settimana. Surreale. Come il tipo che esce dall’hotel di fianco che in teoria è abbandonato. Lo guardo che si allontana, mi chiedo se sia un’allucinazione o cosa, soprattutto – come mi succede sempre più spesso – mi domando se esista davvero un confine tra il reale e il suo oltre. A Moutiers prendo un pain au chocolat e compro tutti i giornali che hanno il ciclismo in copertina. Piove. Ho paura che non ci sia scampo oggi. Mancano forse cinque ore al passaggio, ad Albertville stanno discutendo se far partire la tappa o no, mentre qui la gente è già appostata con gli ombrelli e le tende di fortuna fatte con le bandiere, qualcuno griglia sotto l’acqua che scende sempre più forte. Guardo il fumo che sale avvolgendo i pini e non mi stupisco più di niente: è vero, questo sport è bastardo come pochi ma, allo stesso tempo, permette miracoli in continuazione. L’ultima tappa sulle Alpi di uno dei Tour de France più sofferti e straordinari degli ultimi cento anni è troncata a metà ma nessuno qui sembra lamentarsi: stoici e imperterriti aspettano la fine, li aspettano fino alla fine. Nella gioia e specialmente nel dolore, così funziona. Se il ciclismo diventasse una lettera, sarebbe fatta di parole a fiumi che ti spaccano gli argini, che segnano di nuovo il tuo alveo, tutte quelle che improvvisamente disegnano il destino sulla mano: cose che tu ancora non avevi visto.
Lo stesso vento che aveva portato le nuvole adesso le porta via, il sole asciuga in un attimo la strada, su una curva uno scrive “Egan” in caratteri cubitali con un sasso. Sanno tutti che è una fatica vana: la corsa passa in un attimo, full gas, non vedono niente. Però, quando sono sulle montagne, penso sempre che qualcuno – non mi ricordo neanche chi – un giorno mi ha detto che quando soffri in bicicletta, quando sei al limite, tutti gli altri sensi diventano più acuti. Senti tutto. E sentire è un verbo che appartiene all’altra dimensione.
Mentre salgo al Mont Cenis per tornare a casa, vedo le cascate delle nevi perenni che scorrono come vene di sangue bianco lungo la montagna, violente e silenziose, scavano la roccia senza dire una parola. Così fanno le cose importanti: qualunque sia la superficie e tutto ciò che ci galleggia sopra, essa non conta, scavano a fondo, spaccano la bolla in cui ti sei rifugiato per cercare di restare fuori da tutto. Come il sangue viaggiano dalla testa al cuore, senza più sapere cosa fare l’una senza l’altro.
Il lago è azzurro e increspato dal vento, non l’avevo mai visto in una luce così.