Fuori il cielo è nero per metà, ho un conto in sospeso con la sveglia che si aggiunge alle altre mie mille cose in sospeso. Le mucche immobili sembrano figurine di carta nella luce che illumina i prati della mattina mentre le nuvole ancora si ammassano minacciose squarciate dai lampi di sole. L’Olanda è così, quieta e in tempesta come succede spesso anche a noi, a metà scorrono i suoi canali e i gabbiani ci volano sopra insieme ai corvi neri con gli occhi di ghiaccio. Volano contro il vento impassibili, abituati ad abbassare le ali, a seguire una traiettoria precisa o semplicemente a resistere alle folate che arrivano senza preavviso e ti spezzano in due. Come il gruppo che nei primi venti chilometri è già rotto in quattro: questo circuito è un criterium, lo dicono tutti. Sarà il vento, sarà la velocità ma non è così che esorcizziamo tutto? Mettendo la musica nelle orecchie ad alto volume in modo che il mondo non entri, correndo di qua e di là dappertutto per sentire ogni cosa o per non sentire più niente?
I mulini girano come girano le nuvole attorno ad Alkmaar che è una città dove la gente mette tutto alle finestre, come si usa fare qui: fenicotteri, piante, bambole di ceramica, strane cose che guardano i giardini dove crescono le rose e i girasoli insieme. Strane bolle di sapone dalle quali guardare fuori nelle stupide mattine senza scopo, in cui vorremmo chiuderci un giorno, per fare cose normali e straordinarie. Compiere la missione per cui la vita ci ha scelto, preso dalla polvere di una galassia lontana e portato qui.
Ogni tanto pioviggina ma la gente se ne frega, anche loro come i corvi, sono impassibili a ogni cosa, tranne che al ciclismo, maledetto chiodo piantato nel cuore, ti fa male appena ti muovi, non puoi fare un passo senza sentirlo. Hanno portato fuori tutto: il divano, il tavolino del salotto, il vino, la birra, i bicchieri, persino la televisione collegata con la prolunga di due metri, e fa niente se rischia di venir giù l’acquazzone e mandarla a puttane: quando una sola cosa importa, tutto il resto non vale niente.
Dicono che si fa corsa dura ma non si sa mai quanto dura sia: da fuori non senti, il dolore non passa, non ci si accorge e forse vorresti non accorgerti neanche tu. I canneti lungo i fossi crescono già piegati dal vento, il gruppo mangia i giri, si crea un buco, vanno via in tre e in tre rimangono. Sulla curva a gomito dopo il traguardo, tra un bambino che mangiucchia un biscotto e un tipo che parla di Mathieu Van Der Poel, ci sono io che guardo il mio agosto fuori stagione e non riconosco quasi niente, non so neanche che giorno sia del calendario. Undici. Come undici giri, come il mio numero fortunato. Come mille altre cose che non sto neanche qui a spiegare. Perdo l’arrivo, non vedo niente ma l’idolo di giornata è uno che, davanti al podio, prende una transenna, la rovescia e la usa come scaletta per salire su una specie di cabina del gas. Salgo anche io.
Scende la sera con la sua luna a metà, c’è una specie di container azzurro sul canale con le lucine come le feste di paese, con i divani consumati fuori e la musica dentro. Bevono. Nessun corvo vola più sull’acqua scura. Come loro, bisognerebbe essere pronti, non sai mai come ti fregheranno le cose, da che parte soffia la bufera, che cosa devi fare per restare in piedi. O forse a volte basterebbe pensare di essere soltanto aquiloni. Che al vento non resistono, che con il vento volano.