Sono alti e filiformi gli alberi sul versante della montagna, fitti, tornante dopo tornante. Dall’alto sembrano quelli dei modellini, mentre la nebbia va avanti e indietro, le nuvole e l’azzurro, la pioggia e il sole, i prati e certi sporadici blocchi di neve che sembrano essere lì da millenni. Qualcuno ci ha messo sopra due sdraio di quelle degli impianti sciistici. Sono avvolte dalle nubi delle braci. Le tende puntellano la montagna qua e là, c’è gente che è qui da ieri, ha dormito sulla schiena del Kaiser per tutta la notte, ascoltandone il respiro nel buio senza avere paura. E’ ora di pranzo, si divide il cibo come nelle confraternite, si scambiano il vino e le birre come un rito. Un rito eterno, quello della montagna. Quello di questa montagna che il ciclismo ha amato subito, tremenda e folgorante e stordente, è diventata lo stadio naturale di uno sport senza stadi, che vive in ogni chilometro dove si soffre e si prega e si tenta l’impossibile. Uno non ci crede ma questi se la farebbero in ginocchio pur di venire fin qui, si venderebbero la madre forse.
Sta di fatto che la prima regola sacra è sempre la stessa: il posto non si abbandona mai. A costo di restare in piedi per otto ore alla transenna, con la pioggia e magari senza ombrello, tenendo sempre quel sorrisetto sulla faccia come a dire che sì, sarà una nuvola che va e viene. Lo so anche io, che negli anni ho imparato a tenere le curve migliori coi gomiti larghi come un velocista stronzo. Stavolta quella giusta è ai meno venticinque metri. Ultimo strappo in cui se ti alzi sui pedali i polpacci assomigliano più a un’opera d’arte che al resto, quando sei proiettato in avanti dal dolore perché cerchi l’aria, perché cerchi di arrivare. E’ che lo Zoncolan è cattivo come pochi altri, non lascia un secondo di tregua mai, non ti illude, ti tira fuori l’anima, ti spezza dall’inizio e un po’ alla volta. Poi tocca a te essere forte nei punti spezzati, come si dice.
Il versante si riempie, indiani li chiamano, perché dal basso sembrano veramente pellerossa di vedetta verso la valle.
“Eccoli là” dice qualcuno, “come se stessero aspettando il generale Custer a Little Big Horn”
Una nuvola nera e bassa preme sulla montagna e una striscia di luce illumina le figure appostate sulla cresta come un esercito. Chissà se a Cavallo Pazzo sarebbe piaciuta questa montagna, con questo cielo drammatico che sembra quello prima di una battaglia, con il vento che mischia il sereno alla tempesta e i fumi che salgono come segnali di un attacco imminente. Chissà se è davvero questa l’anima di questa montagna, che oggi ha lo sguardo di ghiaccio e il cuore a ritmo della ola che riesce a fare la gente da un versante all’altro, a dimostrare che è semplice capirsi anche senza dirsi niente.
Ma il cielo è sempre più blu, cantano, adesso che il cielo sta quasi venendo giù. E’ sabato, qua il mondo non arriva, restiamo solo noi, pazzi con le gambe in cancrena per cinque ore in piedi alla transenna. Piove a tratti, poi esce il sole poi piove di nuovo. Mancano tre chilometri sotto un cielo che sembra annunciare l’apocalisse. Tre maledetti chilometri che non passano mai, vuoi che tutto finisca e poi no, vuoi che tutto resti cristallizzato nel tempo di attesa, dilatato all’infinito, come un anello spazio temporale. Froome e poi Yates, e Froome ancora. Mi sembra di vederlo Yates tutto nervi che scatta in avanti, scalatore nel guizzo di un finisseur. Ultimi mille metri, ultimi metri, il boato della montagna che scuote tutto, copre i tuoni in lontananza. Il versante si spacca in pochi minuti, le cime sono presto nelle nuvole, il sudore si mischia alla pioggia che viene strofinato via sui corpi che fumano, segnali della battaglia, effimeri e inutili per capire cos’è stato oggi.
Scendendo con la seggiovia mi sembra improvviso e surreale il silenzio della valle dall’altro versante, così improvviso e tagliente come la pioggia sottile sulla faccia, un baratro sotto ai piedi che mi fa pensare a quanti baratri fanno le salite, quanta voglia di arrendersi e di lasciar stare che tanto non cambia niente.
Non perdi quando perdi. Perdi quando molli perché si fa troppa fatica, ecco tutto. Perdi con te stesso e non c’è nessun onore in questo.
Non so se a Cavallo Pazzo sarebbe piaciuta questa salita. Troppo cattiva forse, troppo disumana. O magari questa leggenda lo avrebbe incantato: un esercito salito sulla sacra montagna per stringere un patto tra la terra e il cielo, milioni di persone sotto il soffio del Grande Spirito in un pomeriggio di orgoglio e sacrificio.