Più che altro questa valle è una gola. Il fiume serpeggia chiaro là in basso, sottile quasi invisibile, incastonato come un diamante in fondo alle montagne dai fianchi scoscesi, così ripidi che i pini sembrano aggrapparsi al versante per non scivolare giù. Sulle cime striate di neve vanno e vengono le nuvole, fanno volare i fiocchi rosa legati alle ringhiere, le bandiere italiane. Sappada è il classico esempio di cosa succede quando passa il Giro, il profumo di frittelle e di fritto come una fiera, bambini per poche ore o forse per tutta la vita. Fingiamo di essere adulti per sopravvivere.
Scendo fino ai meno tre chilometri per trovare un punto decente dove scattare le foto, su e giù, in mezzo il paese con la gente che mangia gli strauben – ma riuscirò anche io a mangiarne uno in pace prima o poi – e ha le birre in mano, come da copione. Poi da lontano vedo i palloni gialli con scritto BATTA. Avevo un debito da Asolo con loro, mi riempiono di ciliegie, mi danno un fiore, mi abbracciano e mille altre cose. Cioè sembra una visita parenti. A me che sono a trecento chilometri da casa.
Quello che fa il ciclismo, capitolo duemila.
Scendo ancora, becco una specie di maitre con la mantellina e con una caraffa di Spritz in mano che sembra un po’ seguire la legge della moltiplicazione dei pani e dei pesci: è perennemente piena. Probabilmente loro sono alla ventesima caraffa, anzi di sicuro alla trentesima. La strada fa una curva, una esse che sembra di essere catapultati lontano anni luce dal mondo reale. I pini alti e magri e scuri sono tutti vicini, il silenzio surreale interrotto solo dall’inquietante gorgoglio del fiume là sotto. La valle ti mangia, la salita ti costringe a guardare cosa sei. Fa paura scendere nell’abisso, fa paura persino risalirci. Inizia a piovere, non puoi farci niente, questo è uno sport dove devi essere abituato agli sbalzi di quota, di tempo, di senso. Piove fitto nel fitto degli alberi diritti come a formare un labirinto. Allo Swatt Corner sono carichi penso dalle cinque di questa mattina, a occhio e croce, offrono da bere a chi passa, impartiscono lezioni di Bike Porn – d’altronde chi meglio di loro che pure con la pioggia battente non abbandonano l’Oakley Jawbreaker dorato – e mi sfottono perché non hanno mai visto una ragazza scendere da una montagna con le ciliegie in mano.
Sono le quattro. Le ciliegie gliele lascio, torno su da quelli di Battaglin che mi aspettano per un secondo round che consiste in un panino con la soppressa – fette alte due dita – che non puoi rifiutare pena la morte da accompagnare per forza con un bicchiere intero di vino. Attacca Yates ma non so bene come va la corsa, sono troppo impegnata a mettermi addosso le felpe che avevo portato per far spazio a una cassetta di ciliegie che mi incastrano per traverso nello zaino. Poi dicono che il ciclismo non ti fa venire le lacrime agli occhi. C’è il vento e c’è il sole, risalgo il percorso, passa l’inizio corsa, lo sciame di moto, la gente che aspetta e io che cerco di guadagnare più metri manco fossi in fuga. La maglia rosa passa come un fulmine, come una gara contro il tempo di uno che del tempo ha paura davvero. Secondi, tutto per altri secondi. Due chilometri, un chilometro e ottocento, e cinquecento, un chilometro. In ottocento metri è come se attraversassi la montagna. Ma gli altri arrivano a manciate, vedo gli ultimi sulla linea d’arrivo, hanno negli occhi le imprecazioni mute, il vuoto totale sulla faccia pallida di chi la salita l’ha subita tutta, ingoiata a forza.
Il sole scende presto nelle valli chiuse, resta una luce incantata sulle montagne, come se fossero staccate dal resto, striate di neve lucida, di alberi aggrappati alle sue costole come un tiranno o come una madre. Passiamo da Longarone per prendere l’autostrada, guardo la diga incastrata nella gola, la vita che scorre sotto la sua veglia inquietante. Ancora abbiamo i nostri fantasmi. A volte siamo solo bravi a seminarli.