Si sale ancora e poi ancora e ancora. Sembra una specie di pista ciclabile ma è una provinciale che costeggia la montagna tra i burroni dove crescono i papaveri, i fiordalisi e le erbe alte sul nulla. La valle scende a gradoni tra i vigneti e i paesini dove di tanto in tanto sbuca un anziano con la faccia cotta dal sole a guardarti strano perché da lì non passa anima viva – quasi – mai. Poco fa in autostrada correvamo insieme ai corridori, il guard-rail in mezzo, uno di qua e noi di là, a fare il tifo sulla corsia di emergenza, a scattare le foto in corsa. E’ strano come il ciclismo ti faccia sentire per un attimo in mezzo a tutto e subito dopo lontano da tutto, un rumore assordante e il silenzio profondo.
Per il resto questa discesa ti brucia i freni, sull’asfalto ci lasci le gomme. Diciotto per cento. Di quegli strappi che vanno su secchi come bastonate, curva stretta dopo curva stretta, in mezzo al bosco. Una di quelle salite da Marco Pantani, forse per lui e nessun altro. Chi c’ha il coraggio di venire quassù a morire nel mezzo del nulla?
Abbiamo fatto il giro del mondo solo per non andare contro la corsa che sta sull’altra provinciale più a valle. Trento-Rovereto. Una marea di viti, un cielo mai quieto, le ciliegie acerbe, l’odore del gelsomino da qualche parte. Sette chilometri più in là dell’arrivo, tra un paese e l’altro, con una manciata di gente che aspetta il giro con l’ordine dei partenti scritto a mano, le case aperte, i bambini che saltano, i vecchi che bevono vino sui tavolini pieghevoli tirati giù dai camper e il tempo scandito dalle sirene in lontananza che annunciano l’arrivo, le ruote lenticolari sorde sull’asfalto. La cronometro è sempre un gioco di pieni e vuoti.
E poi pensi alla bellezza anche se coi numeri non ci capisci niente, una conchiglia perfetta sulla bici come quando ascolti e senti il mare. Il tempo non aspetta, il tempo è l’onda, il tempo è pieno, tu sei il vuoto.
Una signora prende il tricolore, chiede a quelli dall’altro lato della strada, chiede di Mimmo.
“Mimmo chi?”
“L’italiano, quello terzo in classifica”
“Ah, Pozzovivo”
Che poi, chi mai l’ha chiamato Mimmo.
Domenico Pozzovivo, uno di quelli che, da quando ha fregato Punta Veleno, si è guadagnato almeno uno striscione di pazzi sognatori su ogni salita affrontata – in gruppo o da ultimo, fa lo stesso – e che adesso nessuno si fila nonostante stia lottando per il podio del Giro d’Italia con davanti Doumulin e Yates: non proprio due qualunque, insomma. Ma la gente è strana, non si sa mai chi voglia come eroi esattamente.
In ogni caso quando si profila la sua figura all’orizzonte la signora comincia a sventolare la bandiera, gridano, gridano tutti e gridano forte.
Avere qualcuno che aspetta di vederti anche per un solo istante è un po’ come sentirsi sempre al sicuro.
Il lago è pallido, le montagne velate. E’ la luce delle sere senza sole, venendo giù da Nago con tutta la fila di macchine delle sei e mezza, il Sarca che taglia a metà la valle. Ho fatto pace con tutto in quella conca, sa i miei pieni e i miei vuoti e – come nessun altro posto al mondo – so che manterrà ogni segreto.