Ci ha pensato il vento a spazzar via tutto stanotte, a lasciare questo cielo azzurro, a far finta che non sia ottobre con i ciclamini colorati fuori dalle vetrine dei fioristi e Città Alta sullo sfondo, già nel sole.
Lo so come va questa corsa, come sono le mattine tra la luce e l’ombra, dove fa freddo e fa caldo, esattamente a metà, bipolare come il ciclismo, il bianco e il nero diviso da una linea diritta che poi in corsa si mescola, non si distingue più niente. Lo so cosa succede: un quarto d’ora per salutarsi, come quando partono i treni o gli aerei, un quarto d’ora per l’ultima volta. Che vorresti dire tutto in poco tempo, di quanto siamo stati pazzi, tristi e incoscienti. Di come avremmo voluto ribaltare il destino e non abbiamo avuto nessun coraggio. Di quanti chilometri abbiamo messo tra noi e le cose.
E invece niente, non riesci proprio a trattenere il tempo, a trovare le parole giuste.
Ha l’odore del lago, il ciclismo, si mischia con quello della risacca che spesso mi fa pensare che in fondo c’è sempre qualcosa che vuole consolarti quando ti viene da piangere. Il Lombardia che arriva a Como è l’anima che si ricongiunge alla corsa, un percorso senza pietà che finisce in paradiso, il lago blu pettinato dal vento con le barche bianche, la pace dopo l’inferno, l’autunno che gioca con gli alberi prima di ferirli. Così intensa, così malinconica, piena di chiaroscuri come la stagione che muore.
Quando Vincenzo scatta ripenso sempre a quell’istante. Lui a tutta sul Ghisallo: la più grande azione, la più grande sconfitta prima di diventare Nibali davvero. Corre senza testa, dicevano. Era solo istinto, di dare tutto senza risparmiarsi, senza regole. Si impara a ragionare, si impara che in fondo non conta come vinci, conta come corri. Il talento è emozione, il resto son stronzate.
Glielo aveva detto Zanatta, che aveva una dote in discesa e che poteva usarla per difendersi o per attaccare. Lui ha fatto la sua scelta. E adesso le curve per scendere dal San Fermo sono un po’ familiari, due anni non hanno cancellato di certo le tracce di una giornata così, proprio come questa. Adesso le curve sono perfette, senza sbavature, con la gente che guarda e trattiene il respiro perché il confine di una discesa è l’ignoto, sfiorare il baratro e poi evitarlo all’ultimo momento. Come un miracolato, come uno che ha paura ma ci prova lo stesso: il coraggio secondo Gilles Villeneuve.
E’ infinito o quasi il rettilineo del lungolago, ci sono così tante persone, c’è così tanto silenzio un attimo prima dell’uragano, dell’inno cantato senza parole, Vincenzo che incita la folla e vince ancora in mezzo al tricolore, con il lago che scorre nel pomeriggio che allunga le ombre sul rettilineo, un pugno di secondi, lui che è già sparito, la pioggia dei coriandoli verdi come erano le foglie prima di questo ottobre. Ma la gente non se ne va, gli corre dietro mezz’ora dopo verso la sala stampa, lo aspetta al bus, lo aspetta fino a che il sole scivola dietro le colline, le dipinge di blu, accende piano le luci delle rive. L’amore ha così tante forme, le più vere sono invisibili e tenaci come l’odore della risacca, profondi come il lago nero di notte che risucchia i gradini degli attracchi e poi li riconsegna al mondo di sopra, incessantemente.
In piazza ci sono tutte le transenne ammucchiate insieme, il palco smontato per metà, fuori dai ristoranti si mangia come le sere d’estate, un musicista di strada canta Stand by me.
Dio sa quanto ti ho voluto stare vicino in questa maledetta stagione, quante volte ho pensato che sarebbe bastato un abbraccio, un modo qualsiasi di dirmi resta con me, nel cuore di questa adrenalina senza fine.
Ma qualcuno me l’ha detto stasera: “non esistono stagioni, qui”. E’ vero. Un ciclista è un ciclista sempre.
Non esistono stagioni.
Ci ripenso mentre guardo le luci della funicolare che salgono verso Brunate e il suo hotel fantasma e tagliano in due la collina.
Come una di quelle cicatrici che vedi a distanza e delle quali non racconti la storia a nessuno.