Il vento caldo come certe città di confine messicane spazza le strade deserte, fa rotolare il niente sotto il sole che cuoce l’asfalto e i muretti bassi da dove sbuca un glicine dondolante nelle due del primo pomeriggio. Le persiane chiuse, le case bianche, i giardini di ghiaia dove sonnecchia un vecchio maggiolone ramato da sembrare arrugginito, le insegne di un ristorante con le saracinesche abbassate. Romans-sur-Isère ha lo strano aspetto di una città abbandonata l’istante prima di un uragano. Tutto lasciato così, scappati all’improvviso portando via solo sé stessi.
L’uragano non è mai arrivato, la gente se ne è andata. Una cosa come cristallizzata nel tempo. Ieri, molti ieri fa.
In una paninoteca coi tavolini sul marciapiede c’è un papà che spiega a suo figlio la posizione che deve tenere un velocista. Il bambino ha la maglia dell’AG2R che gli arriva fino alle ginocchia, stanno seduti davanti a due coni di spaghetti riscaldati. Parlano in francese ma capisco dai gesti, gli sta spiegando il concetto di aerodinamicità. Ho detto alla signora di non mettere burro nel mio panino, ce l’ha messo lo stesso. Non è così male in fondo.
Il vento porta sabbia da chissà dove, te la butta negli occhi come il folletto del sonno nelle fiabe della buonanotte. Sei ore di macchina per arrivare fino a qui e rimanere bloccata dall’altra parte della strada, quella sbagliata naturalmente, litigare coi gendarmi che non vogliono farti attraversare, implorarli e fallire. Non sono mai stata brava a convincere nemmeno la gente che amavo, figuriamoci due con il mitra che non mi hanno mai vista in vita loro.
Gli algerini in ciabatte attraversano la piazza con la torre, si portano dietro odore di drum fatti male con dentro chissà cosa, c’è un cigno in ferro battuto che vomita acqua, un caffè con le colonnine verdi sbiadite, chiuso solo oggi o forse da anni. Un vecchio con i baffi neri e folti, gli occhiali scuri e la faccia cotta dal sole sta seduto su tre gradini di una casa con la porta di legno scrostato.
Madamoiselle, chiama con la erre che si arrotonda roca, une photo s’il vous plait.
Un altro di fianco a lui con la canottiera unta e con la pancia tonda di alcool ride.
Sembra di stare sul set di Narcos.
Prigioni, non sai mai quali siano. Dentro o fuori non fa poi molta differenza. I pullman sono a cinque chilometri, le strade per il rettilineo tutte chiuse dalle grate alte due metri: posti di blocco alla fine di queste vie fantasma, addormentate nella pennichella del pomeriggio. Il vento è filo spinato attorno alle pale degli elicotteri che annunciano l’arrivo. Da tre gradini all’ombra non si vede quasi niente, sbucano a tratti i superstiti della volata, la gente comincia ad andarsene, ad accerchiare quel grande recinto con i bambini per mano come allo zoo. Tornano alle macchine o chissà dove, spariti nella porta spazio temporale di quei cinque chilometri blindati dalle case del quartiere.
In hotel passano un film di Jean Paul Belmondo, lui in aeroporto con una pelliccia fino alle ginocchia.
Non ho mai acceso la televisione dopo una tappa, ma stavolta è diverso. Un’ ascia conficcata nel petto, troppo sangue. E poi francese, non ci capisco niente. Fuori c’è un paesino di montagna illuminato in lontananza, una piscina custodita come una serra, ponti di legno nei campi. Ponti che non portano da nessuna parte. Ponti tra il nulla e il nulla, vegliati dalla pista dei bob.
Chissà se è così che si brucia, gridando quieti senza che nessuno se ne accorga. Stando sui ponti credendo di salvarsi dai fossi, sperando che la notte lasci solo la cenere.